L’IO ALLO SCHERMO
Pavel Pyś riflette su “The Body Electric”
In questo saggio, il curatore Pavel Pyś riflette sulla mostra “The Body Electric,” esplorando le pratiche artistiche che hanno riflettuto in maniera critica sulla tecnologia per sollevare questioni legate alla rappresentazione del corpo, soprattutto in termini di identità, incarnazione, discendenza, genere, sessualità, classe e appartenenza.
Trisha Baga, Mollusca & The Pelvic Floor, 2018. Veduta dell’installazione nella mostra “The Body Electric,” Walker Art Center, Minneapolis. Foto: Bobby Rogers.
La mostra “The Body Electric”1 è nata in risposta a una constatazione frustrante, ossia che il lavoro di un gruppo di artisti, più o meno della stessa età, veniva mostrato prevalentemente nel contesto della loro generazione.2 Tra quelli, la maggior parte aveva a che fare con le nuove tecnologie (come stampa 3D, motion capture, avatar, animazioni generate al computer) e molti venivano definiti “arte post-internet”—un termine che, al momento dell’apertura della mostra, era ormai esausto e di poco uso.3 L’idea è stata quella di creare un albero genealogico intergenerazionale dove inserire questi artisti emergenti e mid-career, promuovendo così pratiche artistiche fino ad allora trascurate e mostrando un sano scetticismo verso le novità della tecnologia. Gli artisti in mostra condividono la ricerca sul corpo e sulla sua immagine mediata, da cui sollevano questioni importanti legate alla rappresentazione, in termini di identità, incarnazione, discendenza, genere, sessualità, classe e appartenenza. Come Alice che scompare attraverso lo specchio, così questi artisti superano con agilità i confini che separano il mondo fisico dalla sua dimensione a schermo, rendendo pressoché indistinguibili le differenze tra bidimensionalità e tridimensionalità, reale e virtuale, analogico e digitale. Ma quando tali distinzioni iniziano a dissolversi, in quale modo gli artisti mettono in discussione il presente e ci mettono in guardia dal futuro prossimo?
Il tempo è una forza umiliante, poiché il suo trascorrere minaccia di trasformare in residui retro-futuristici del presente quelle che erano le proposte del passato per il futuro. Questo saggio si dedica all’approfondimento di alcune opere esposte in “The Body Electric,” ciascuna delle quali esplicita una costellazione di preoccupazioni che hanno una rilevanza specifica per la contemporaneità. Mentre alcune opere d’arte del passato risultano ora particolarmente lungimiranti poiché hanno anticipato il presente, quelle realizzate oggi rimangono riflessioni sperimentali sul qui e ora, non essendo state ancora verificate dalla marcia inesorabile del tempo. Con uno sguardo tanto su artisti storici quanto su quelli contemporanei, “The Body Electric” si è chiesta in quale modo le opere d’arte assumono nuova importanza e significato a seconda del momento storico in cui ci si trova. È del tutto possibile—anzi, probabile—che, se questa mostra (e, per estensione, questo saggio) dovesse manifestarsi tra dieci, venti o trent’anni, molti artisti esclusi ora esigerebbero di essere inclusi. Così, dall’osservatorio del 2021, questo testo prende atto delle lacune che spero possano essere perdonati da chi lo leggerà in futuro.
Martine Syms, Notes on Gesture, 2015. Still da video. Video monocanale (colore, suono); 10:27 minuti in loop. Image copyright: Martine Syms. Courtesy dell’artista, e Bridget Donahue, New York
Nel saggio “Il video e l’estetica del narcisimo” (1976), Rosalind Krauss ipotizza che “il ripiegamento sull’Io—cioè la situazione in cui il corpo o la mente diventano i limiti del proprio mondo—si trova ovunque nel corpus della videoarte.”4 Osservando il lavoro di Vito Acconci, Lynda Benglis e Bruce Nauman, Krauss riconosce i diversi gradi di distanza critica con cui gli artisti si avvicinavano a questo medium allora nascente. Ciononostante, stabilisce che la videoarte è una “situazione psicologica” poiché, attraverso il rispecchiamento, fa crollare il confine tra l’artista e la sua rappresentazione, tra il soggetto e l’oggetto.
STRUMENTALIZZANDO L’INTERAZIONE TRA IL PROPRIO CORPO E LA SUA IMMAGINE DAL VIVO SULLO SCHERMO TELEVISIVO—CHE JOAN JONAS DEFINÌ UNO “SPECCHIO CONTINUO”—QUESTA PRIMA GENERAZIONE DI VIDEOARTISTI HA UTILIZZATO L’IMMAGINE IN MOVIMENTO COME UN MEZZO PER FRANTUMARE LA REALTÀ, NON SOLO STRATIFICANDO LO SPAZIO E IL TEMPO MA ANCHE COMBINANDO IL MONDO FISICO CON LE SUE RAPPRESENTAZIONI MOLTIPLICATE.
Strumentalizzando l’interazione tra il proprio corpo e la sua immagine dal vivo sullo schermo televisivo—che Joan Jonas definì uno “specchio continuo”—questa prima generazione di videoartisti ha utilizzato l’immagine in movimento come un mezzo per frantumare la realtà, non solo stratificando lo spazio e il tempo ma anche combinando il mondo fisico con le sue rappresentazioni moltiplicate.5 Oggi questa fusione viene percepita in maniera ancora più intensa: a causa della pandemia da COVID-19, il tempo trascorso davanti agli schermi è aumentato vertiginosamente e, al momento, la maggior parte delle nostre interazioni avviene tramite i social media.6 Dalle nostre case, dove siamo relegati come mai prima d’ora, stiamo affrontando il mondo esterno attraverso uno schermo. Allo stesso modo, gli artisti riuniti nella sezione della mostra ‘Performare per la macchina fotografica,’ hanno girato l’obiettivo sul proprio corpo per porre domande che riguardano questioni legate alla razza, nazionalità, sessualità, identità LGBTQIA + e femminilità. I loro autoritratti sono immagini affini ai selfie odierni i quali, a loro volta, rinnovano l’importanza delle riflessioni di Krauss sul narcisismo. L’arte rispecchia la vita e viceversa, e queste opere ci invitano a fare più attenzione alle condizioni della nostra quotidianità, soprattutto alla luce del modo in cui i social media alimentano modelli comportamentali narcisistici e compulsivi di autopromozione e performatività.7
All’interno di questa sezione, un gruppo di opere di Cindy Sherman, Lorna Simpson e Amalia Ulman offre una lente attraverso cui esaminare come i media modellano la nostra comprensione della bellezza e della femminilità. Untitled (1981) di Sherman e LA’57-NY’09 (2009) di Simpson sovvertono entrambi il linguaggio visivo (e le aspettative che lo accompagnano) della ragazza pin-up, tipicamente volto a soddisfare il piacere dello sguardo maschile. Nell’opera Untitled—concepita per Artforum come una doppia pagina centrale, sul modello delle riviste erotiche maschili—vediamo Sherman in uno stato emotivo disturbato. Illuminata dai riflettori, l’artista appare spaventata e spettinata, cosicché la fotografia comunica un senso di terrore e inquietudine, piuttosto che mantenere una promessa lasciva e provocante. Il lavoro di Simpson sfuma i contorni tra il reale e l’immaginario accostando due serie di immagini: da una parte, fotografie scattate a Los Angeles nel 1957 e acquistate dall’artista su eBay che ritraggono donne non identificate (e occasionalmente uomini) posare nel popolare stile pin-up, dall’altra autoritratti dell’artista che replicano fedelmente l’ambientazione e le pose delle immagini originali. Viste insieme, le immagini di Simpson rivelano le modalità secondo le quali ci presentiamo attraverso scelte di stile, abbigliamento e linguaggio del corpo. Nella serie Excellences and Perfections (2014), Amalia Ulman estende le preoccupazioni di Simpson e Sherman al contesto di Internet e dei social media. Per cinque mesi, attraverso i suoi profili Instagram e Facebook, Ulman ha impersonato la figura vacua di una beauty blogger producendo un flusso di immagini curato meticolosamente, tra interni eleganti, prodotti di lusso e languidi selfie. Al limite tra critica ed emulazione eccessiva, la serie solleva questioni che riguardano il privilegio (in particolare bianco) e la mercificazione del sé attraverso la promozione del proprio stile di vita. Chi simpatizza con Ulman potrebbe considerare Excellences and Perfections un atto di “frivolezza sovversiva”. Secondo l’antropologa Crystal Abidin infatti, tale comportamento da influencer online—nascosto intenzionalmente dietro a una modalità di comunicazione vacua e presuntuosa—è uno strumento produttivo e positivo.8 Altri potrebbero schierarsi con l’interpretazione della curatrice e scrittrice Legacy Russell, che lo ritiene insufficiente per affrontare in modo critico la stessa piattaforma che sfrutta, diventando così “uno sfoggio infelice di privilegi, ossessionato da una sorta di ‘passing’ socioeconomico che non è stato messo in discussione da un pubblico avvezzo al consumo ingordo dei super ricchi.”9 Riflettendo sui selfie nel 2012, il critico Brian Droitcour scriveva che “l’estetizzazione della vita quotidiana nei social media… ha privato i media di massa dell’autorità della creazione delle immagini.”10 Insieme, questi lavori di Sherman, Simpson e Ulman mettono alla prova le affermazioni di Droitcour che, alla luce del nostro presente, risultano tristemente ottimiste.
Veduta della mostra “The Body Electric,” Walker Art Center, Minneapolis, 2019. Foto: Bobby Rogers
Molte delle artiste e degli artisti in mostra, come Laurie Anderson, Ed Atkins, Zach Blas, Peter Campus, Lynn Hershman Leeson, Pierre Huyghe, Sondra Perry e Ulrike Rosenbach, hanno esplorato la trasposizione (o trascendenza?) dell’Io incarnato nell’ambiente virtuale attraverso l’uso di avatar. Simili approssimazioni digitali sono proliferate selvaggiamente negli ultimi due anni: nel 2019 Apple ha rilasciato la funzione Memoji, mentre nel 2020 Facebook ha presentato per la prima volta la funzione Avatars—entrambe generano ritratti cartoon personalizzabili dei propri utenti. Ormai gli avatar sono sempre più comuni nella nostra vita quotidiana: comunicano con noi come assistenti virtuali tramite algoritmi che elaborano il linguaggio naturale e addirittura ci controllano al nostro arrivo in aeroporto.11 Negoziamo la nostra presenza online (o la sua mancanza, come dimostra il lavoro dei gruppi che difendono i diritti delle persone disabili e che richiedono emoji più diversificate)12 persino dopo la morte, dal momento che i profili social di chi è deceduto ci costringono ad affrontare nuove dimensioni del dolore e lutto.13 I contorni di ciò che è reale e ciò che è virtuale si stanno spostando: “AFK” (“Away From Keyboard” o “lontano dalla tastiera”) sta diventando una descrizione del “reale” più accurata di “IRL” (“In Real Life” o “nella vita reale”), poiché gran parte delle nostre vite avviene già nel cyberspazio. Il teorico dei media Marshall McLuhan aveva previsto questo spostamento nel libro Gli strumenti del comunicare (1964), dove sostiene come le tecnologie comunicative in rapido sviluppo fossero estensioni non solo del nostro corpo, ma anche di noi stessi: “In quest’era elettrica ci vediamo… avanz[are] verso l’estensione tecnologica della coscienza.”14 Ma cosa dire, allora, del corpo e di ciò che lo circonda in maniera più immediata e tangibile? Il digitale vende l’illusione dell’immaterialità: la cloud è infatti una metafora misteriosa di opacità e assenza di gravità. Tuttavia, come afferma lo scrittore e artista James Bridle in Nuova Era Oscura (2019), dietro al suo velo si nasconde “un’infrastruttura fisica composta di linee telefoniche, fibre ottiche, satelliti, cavi sul fondo dell’oceano e giganteschi magazzini pieni zeppi di computer che consumano quantità ingenti di acqua ed energia, e che dal punto di vista legale fanno capo a giurisdizioni nazionali.”15 Questi due ambiti, ossia on/offline, fisico/virtuale, qui/là, sono inestricabilmente interdipendenti e decisamente reali. Nelle mani degli artisti, gli avatar si offrono come strumento per spingere la tensione tra reale e virtuale oltre ai limiti a cui i nostri corpi e le nostre menti sono legati. Dove finisce il sé incarnato e inizia la propria entità virtuale disincarnata?
Ed Atkins, Happy Birthday!!, 2014. Still da video. Video HD, suono; 6:32 min. Courtesy dell’artista; e Cabinet, Londra
In Happy Birthday!! di Ed Atkins (2014), incontriamo un personaggio maschile altamente realistico realizzato in CGI, che borbotta un elenco apparentemente arbitrario di anni, giorni e codici temporali, come se lottasse per ricordare un evento passato significativo. Mentre cerca tra i suoi “ricordi,” vediamo apparire un collage di immagini—varie animazioni vorticose in CGI, un cielo notturno, una camera da letto—che ha come colonna sonora una canzone patetica e straziante di Elvis Presley, Always on My Mind. Atkins ha descritto Happy Birthday!! come un’opera carica di una “nostalgia terribile,” come una meditazione dolorosamente malinconica sulla memoria e il nostro essere mortali.16 Anche se il suo aspetto è iperreale, il protagonista dell’opera è comunque radicato nel mondo reale. Ha un legame diretto con lo stesso Atkins, che fornisce all’avatar la voce e i movimenti del viso, che sono stati registrati dall’artista in motion-capture mentre li esegue davanti a una telecamera. Le fattezze CGI del personaggio acquistano la verosimiglianza da un modello reale, cioè da una persona che è stata scansionata in un avatar, che è stato poi acquistato da Atkins tramite TurboSquid, un sito Web che fornisce modelli stock 3D da utilizzare in giochi per computer, intrattenimento per adulti e render architettonici. L’incontro inquietante con il protagonista confuso e stordito dell’opera di Atkins porta a una domanda scomoda: riesci a entrare in empatia con un avatar? O viceversa: l’agente K e la sua compagna olografica Joi nel film Bladerunner 2049 potrebbero davvero amarsi? Queste non sono domande inverosimili o speculative: stiamo già sviluppando relazioni con compagni dall’intelligenza artificiale. Nel 2016, la società giapponese Gatebox ha presentato Azuma Hikari, un’assistente virtuale con funzione di “moglie rassicurante,”17 la cui immagine olografica in stile anime fluttua all’interno di un contenitore trasparente, come una Campanellino intrappolata.18 Azuma potrebbe inviarti un messaggio provocante mentre sei al lavoro, al tuo comando può attivare elettrodomestici intelligenti, e offre la compagnia di una fidanzata. Pur essendo ancora un settore agli inizi, compagni virtuali come Azuma ci obbligano a considerare il versante emotivo delle nostre relazioni con avatar dall’intelligenza artificiale, aprendo a nuove dimensioni di intimità, empatia e solitudine.
Sondra Perry, Graft and Ash for a Three Monitor Workstation, 2016. Veduta dell’installazione nella mostra “The Body Electric,” Walker Art Center, Minneapolis. Foto: Bobby Rogers.
Sondra Perry impiega gli avatar per affrontare i pregiudizi intrinseci alla tecnologia, soprattutto quelli che riguardano il genere e la razza. Graft and Ash for a Three Monitor Workstation (2016) consiste in una postazione di lavoro con cyclette integrata, un tipo di arredo per ufficio che rafforza in maniera nauseante la celebrazione della produttività capitalista: i lavoratori non solo svolgono le proprie mansioni, ma tonificano anche i loro corpi allenati. Perry ha montato tre schermi sulla cyclette, tramite i quali l’avatar dell’artista narra una storia in cui descrive i limiti del software che l’ha creata: “Non era in grado di visualizzare il suo essere sovrappeso… Il tipo di corpo di Sondra non era incluso tra i modelli standard disponibili.” Qualsiasi umorismo inerente al racconto impassibile dell’avatar svanisce rapidamente se si considerano i molti problemi che le persone di colore si trovano ad affrontare in relazione alle nuove tecnologie. Diversi studi recenti hanno dimostrato infatti che il software di riconoscimento facciale utilizzato dalla polizia negli Stati Uniti identifica molto più frequentemente individui non bianchi,19 mentre apparecchi ordinari come i distributori automatici di sapone non sono in grado di riconoscere i toni di pelle più scuri.
La tecnologia rispecchia la società da cui è sviluppata, come si è visto con il fiasco di Tay, un chat bot dall’intelligenza artificiale rilasciato da Microsoft su Twitter nel 2016. Chiuso poco dopo il suo lancio a causa dell’elevato trolling, il bot aveva assimilato rapidamente le frasi offensive con cui veniva nutrito e aveva iniziato a rigurgitare tweet a sfondo razzista ed erotico. Lo scandalo Tay porta in primo piano la domanda: “A chi appartiene davvero la visione del mondo che la tecnologia riflette?” Nel dare forma alla nostra presenza digitale, ci troviamo di fronte non solo alla questione di come mediamo la nostra identità online, ma anche i nostri corpi. Tali problematiche sono state messe in evidenza dal lavoro di gruppi di attivisti come World White Web, un sito che pone l’attenzione sul predominio delle immagini di corpi bianchi su Internet, così come dal lavoro di coloro che lottano per la diversità nei toni di pelle delle emoji.
Tali questioni, come abbiamo visto nel caso di Azuma Hikari, acquisiscono una complessità e ambiguità maggiori quando ci confrontiamo con quegli avatar che non corrispondono a una persona reale. Nel 2016, la start-up di Los Angeles Brud ha lanciato su Instagram l’influencer Lil Miquela, un avatar aziendale che da allora ha pubblicizzato grandi marchi e persino sostenuto cause come Black Lives Matter, DACA e i diritti delle persone trans. Lil Miquela è di discendenza mista e identità biculturale (metà spagnola e metà brasiliana) che però non riflettono quelle dei suoi creatori. L’avatar è stato criticato non solo per la sua ipocrisia, ma anche per la rappresentazione di un personaggio la cui discendenza è volutamente ambigua così da dare “ai marchi la libertà di agganciarsi a messaggi chiave woke sulle politiche identitarie, senza dover affrontare la realtà caotica che spesso accompagna questi argomenti complessi.”20 Il lavoro di Sondra Perry si addentra esattamente in questo territorio pieno di dilemmi irrisolti, ossia su come negoziamo i segni che identificano il nostro essere incarnato all’interno di quelle tecnologie digitali che spesso sono asservite agli scopi ambigui dei loro creatori capitalisti.
Sidsel Meineche Hansen, SECOND SEX WAR ZONE (dettaglio), 2016. Courtesy dell’artista; e Rodeo Gallery, Londra/Pireo.
Citando Donna Haraway, il teorico Paul B. Preciado scrive che: “Il corpo del ventunesimo secolo è una piattaforma tecno-vivente, il risultato di un’implosione irreversibile delle nozioni di soggetto e oggetto, di naturale e artificiale.”21 La riflessione di Preciado sul divario umano-macchina obbliga a chiedersi: dove finisce la nostra carne e inizia la tecnologia? In quale modo gli artisti si sono rivolti alla prostetica e all’intelligenza artificiale per superare e riunire questo divario? Nel 1986, l’artista di performance Stelarc scriveva: “La pelle è diventata strumento inadeguato per interfacciarsi con la realtà… la tecnologia è diventata la nuova membrana dell’esistenza del corpo.”22 Se in quel momento la dichiarazione di Stelarc sembrava futuristica, ora annuncia un futuro che è più vicino di quanto immaginiamo. Anche se molti dispositivi indossabili non hanno avuto successo (come Google Glass), altre “tecnologie epidermiche” che offuscano il confine tra corpo e dispositivo (in particolare dispositivi sportivi come fitbits e gioielli intelligenti) sono molto richieste.
Il lavoro di Lynn Hershman Leeson e Sidsel Meineche Hansen critica le membrane della piattaforma tecno-vivente, specialmente in relazione al corpo femminile e alla sua mercificazione per il consumo, il piacere e la gratificazione sessuale. Deep Contact (1984-1989) è una delle prime installazioni interattive di Leeson, originariamente installata con una telecamera di sorveglianza per rilevare la presenza di un visitatore nello spazio. “Toccami,” mormorava Marion, la protagonista dell’opera, con la quale siamo invitati a interagire tramite un televisore touchscreen. Ogni parte del corpo di Marion innesca una serie diversa tra cinquantasette eventi possibili: premendo la sua testa, per esempio, si attivano brevi resoconti di come la televisione modella la percezione del corpo delle donne. Ma cosa comporta il dare istruzioni a Marion? Come vengono affrontate le dimensioni del potere in questo incontro voyeuristico? Quali sono le implicazioni della dinamica tra utente e servitore, tra umano e Marion?
Domande simili alimentano SECOND SEX WAR (2016), il corpus di lavori che Hansen ha realizzato in seguito alla sentenza emessa nel 2014 dal British Board of Film Classification che limitava la visibilità di alcune scene (come l’eiaculazione femminile) nella pornografia prodotta nel Regno Unito. In risposta a questa decisione, Hansen ha acquistato su TurboSquid EVA v3.0, un avatar royalty-free con cui ha creato l’opera DICKGIRL 3D (X) (2016). Tramite un visore Oculus Rift per la realtà virtuale, l’animazione CGI ipersessualizzata mostra EVA v3.0 dotata di genitali protestici mentre fa sesso con una massa amorfa. I movimenti del personaggio sono stati modellati a partire da film pornografici, proprio come gli avatar di Atkins sono stati modellati a partire da un essere umano. Poco tempo fa si stimava che entro il 2020 l’industria della realtà virtuale per l’intrattenimento degli adulti avrebbe raggiunto il valore di 1 miliardo di dollari, trainando così, insieme ai videogiochi, gran parte dell’innovazione tecnologica. Tuttavia, come abbiamo visto per il razzismo sistemico, è proprio online che emergono le problematiche legate alla rappresentazione del corpo per il piacere.23 Verrebbe quindi da chiedersi in quale modo la nuova tecnologia codifica un corpo femminile attraente, quando la sua percezione dominante è radicata nel patriarcato eteronormativo. Hansen ha scelto deliberatamente di generare DICKGIRL 3D (X) nella realtà virtuale per affrontare la “produzione di porno post-umano dal suo interno,” sfruttando la stessa tecnologia su cui l’industria del porno sta attualmente investendo in maniera più aggressiva.24 Il lavoro viene usufruito indossando un visore e sdraiandosi su una poltrona a sacco in pelle vegana, costringendoci così a confrontarci non solo con l’immaginario a cui fa riferimento, ma anche con l’hardware che ne permette l’esperienza. In questo modo, il lavoro di Hansen può anche essere messo in relazione con l’industria teledildonica, ossia di giocattoli sessuali interattivi che sincronizzano gli utenti online e che, tramite tecnologia aptica, facilitano il loro contatto reciproco nonostante la distanza. Si tratta di un altro settore in forte espansione a causa della pandemia poiché per molte persone non sono solo gli incontri sociali ad avvenire online, ma anche quelli sessuali. Tuttavia, queste innovazioni ci costringono a mettere in discussione l’infrastruttura che costruisce e supporta tali esperienze.25 Nel 2018, Ralph Russo e Christophe Ramstein, allora leader della società di sensori aptici Novasentis, annunciarono l’alba dell’era “neosensoriale,” “in cui dispositivi elettronici precedentemente inanimati prendono vita grazie al tocco [umano] e [a cui rispondono tramite il] feedback tattile.”26
Utilizzando le tecnologie a loro disposizione, sia Leeson sia Hansen ci invitano a riconsiderare la nostra comprensione del tatto, del piacere e del desiderio all’interno di questi nuovi ambienti mediati, non solo gli uni rispetto agli altri ma anche in relazione alla macchina, che ormai si può considerare vivente. Vale la pena tornare a Haraway, la cui teoria cyborg postula che la tecnologia si basa su “la traduzione del mondo in un problema di codifica, una ricerca di un linguaggio comune in cui scompaia ogni resistenza al controllo strumentale e ogni eterogeneità possa venire sottoposta al disassemblaggio, al riassemblaggio, all’investimento e allo scambio.”27 Insieme a molte altre voci in “The Body Electric,” da Gretchen Bender a Dara Birnbaum, a Zach Blas, Sondra Perry e Martine Syms, Leeson e Hansen mettono in dubbio i mezzi con i quali la tecnologia computa la realtà, chiedendosi: “Quali possibilità abbiamo per resistere a quelle categorie normative che costantemente si traducono in controllo e dominazione?”
Carolyn Lazard, In Sickness and Study, (2015-in corso). Veduta dell’installazione nella mostra “The Body Electric,” Walker Art Center, Minneapolis. Foto: Bobby Rogers.
Mentre gran parte di “The Body Electric” esamina le modalità con cui definiamo il nostro Io in relazione allo schermo, la sezione finale della mostra esplora come il corpo diventa poroso, liquido e soggetto a trasformazioni da parte di forze interne o esterne. Molte delle pratiche artistiche riunite ne ‘Il corpo malleabile’, come quelle di cui Jes Fan, Josh Kline, Carolyn Lazard, Candice Lin, Marianna Simnett, Patrick Staff e Anicka Yi, si domandano in quale modo sostanze molecolari invisibili, come ormoni o batteri, assumono connotazioni di senso, genere o razza.
La ricerca di Kline e Lazard, che si concentra su questioni legate alla salute, ha acquisito un significato particolare durante la pandemia. Per esempio, il lavoro Share the Health (2011-in corso) di Kline consiste in una serie di distributori di disinfettante per le mani—oggetti che, a partire da marzo 2020, sono ormai onnipresenti. Ciascun distributore è riempito con un gel ricco di batteri e sostanze nutritive che, con il passare del tempo, dà vita a un paesaggio in decomposizione. I batteri sono stati raccolti in luoghi scelti dall’artista a seconda della città dove la mostra era allestita, facendo così di ogni distributore un ritratto con connotazioni di classe e appartenenza.28 Inoltre, privati del loro scopo disinfettante, i distributori rendono visibile la presenza costante di agenti patogeni che non vediamo, anche quando cerchiamo freneticamente di proteggere la nostra pelle e l’ambiente circostante. In Sickness and Study (2015-in corso) è invece un lavoro di Lazard creato originariamente per Instagram che documenta le infusioni di ferro intravenose bisettimanali che l’artista riceve come trattamento per i suoi disturbi autoimmuni. Ogni immagine, scattata nella stanza dell’ospedale in cui si trova, mostra la sua mano mentre regge la copertina di qualsiasi libro stia leggendo in quel momento. Sotto molti aspetti, In Sickness and Study è una conclusione adeguata per “The Body Electric” nel 2021: il lavoro rende il corpo di Lazard visibile nell’affrontare i codici sociali che informano la nostra comprensione della malattia e della cura. Se in passato la stanza d’ospedale poteva essere un luogo di guarigione, la pandemia da COVID-19 ha trasformato le nostre case in luoghi di convalescenza dove siamo costretti ad autoisolarci. È impossibile guardare questo lavoro oggi senza che ci vengano ricordate le spiccate disuguaglianze nell’accesso all’assistenza sanitaria, nonché della sfiducia che molte comunità di colore hanno nei confronti delle vaccinazioni—una privazione di diritti umani perpetuata da un sistema sanitario che nella sua struttura è razzista. Infine, come gran parte di “The Body Electric,” la serie di Lazard ci ricorda che le nostre vite sono negoziate nell’interstizio tra il qui e ora e lo spazio infinito e atemporale dello schermo. Mentre la tecnologia media le nostre vite in modi sempre più complessi, il lavoro di tante artiste e tanti artisti in mostra sintetizza la tensione tra due le polarità che affrontiamo ogni giorno: il fascino verso le nuove possibilità della tecnologia e lo scetticismo verso i suoi scopi, spesso sinistri e invisibili.
—Traduzione dall’inglese
di Bianca Stoppani
Pavel S. Pyś, Curatore per le Arti Visive, Walker Art Center, Minneapolis
Pavel S. Pyś è Curatore delle Arti Visive presso il Walker Art Center di Minneapolis. Qui, Pavel ha curato progetti per le gallerie, il teatro e il giardino delle sculture, tra cui la mostra collettiva “The Body Electric” e progetti personali con Daniel Buren, Paul Chan, Michaela Eichwald, Carolyn Lazard ed Elizabeth Price. È stato Curatore presso l’Henry Moore Institute di Leeds tra il 2011 e il 2015.
1 “The Body Electric” è stata presentata per la prima volta al Walker Art Center, Minneapolis nel marzo 2019, e successivamente allo Yerba Buena Center for the Arts, San Francisco (settembre 2019-febbraio 2020) e al Museum of Art and Design, Miami Dade College (novembre 2020-maggio 2021).
2 Come le mostre “Speculations on Anonymous Materials” (2013) e “Inhuman” (2015), curate da Susanne Pfeffer presso il Fridericianum, Kassel; e “Art Post-Internet” (2014), curata da Karen Archey presso UCCA – Ullens Center for Contemporary Art, Pechino.
3 Si veda Brian Droitcour, The Perils of Post-Internet Art, «Art in America», 29 ottobre 2014, disponibile online.
4 Rosalind Krauss, “Video: The Aesthetics of Narcissism,” «October», 1 (Primavera 1976), p. 53 (TdT).
5 Karin Schneider, Joan Jonas by Karin Schneider, «BOMB», 1 luglio 2010, disponibile online.
6 Si veda Jeremy Engle, How Worried Should We Be About Screen Time During the Pandemic?, «The New York Times», January 22, 2021, disponibile online.
7 Per un’analisi della relazione tra social media e narcisismo, si veda Laura E. Buffardi e W. Keith Campbell, Narcissism and Social Networking Web Sites, «Personality and Social Psychology», Bulletin 34, Numero 10 (2008), pp. 1303-14.
8 Crystal Abidin, Aren’t These Just Young, Rich Women Doing Vain Things Online?: Influencer Selfies as Subversive Frivolity, «Social Media + Society», Volume 2, Numero 2 (11 aprile 2016), disponibile online.
9 Legacy Russell, Glitch Feminism: A Manifesto, Londra/New York: Verso, 2020, p. 105 (TdT).
10 Brian Droitcour, Let Us See You See You, «DIS Magazine», 3 dicembre 2012, disponibile online.
11 Nel 2018, l’aeroporto di Auckland (Nuova Zelanda) ha presentato in anteprima VAI, l’ufficiale di biosicurezza dall’intelligenza artificiale, che esamina i passeggeri in arrivo alla dogana.
12 Come l’associazione benefica britannica Scope che, in occasione del World Emoji Day 2016, ha rilasciato una serie di nuove emoji che rappresentano corpi diversamente abili. Si veda Emily Reynolds, Where are all the disabled emoji? Scope releases icons to celebrate the Paralympics, «Wired», 14 luglio 2016, disponibile online.
13 Brandon Ambrosino, Facebook is a growing and unstoppable digital graveyard, «BBC Future», 13 marzo 2016, disponibile online.
14 Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, trad. di Ettore Capriolo, Milano: Garzanti, 1968, p. 77.
15 James Bridle, Nuova era oscura, trad. di Fabio Viola, Roma: NERO, 2019, p. 21.
16 Ed Atkins descrive Happy Birthday!! in un video promozionale per la sua mostra personale presso Kunsthaus Bregenz nel 2019. Kunsthaus Bregenz, Vermittlungsfilm: KUB 2019.01 Ed Atkins, YouTube video, 13 febbraio 2019, 16:57 min, disponibile online.
17 Come descritto da Gatebox sulla pagina del loro sito dedicata ad Azuma Hikari.
18 Ringrazio Zach Blas per aver portato alla mia attenzione Azuma Hikari.
19 Si veda Kashmir Hill, Wrongfully Accused by an Algorithm, «The New York Times», 24 giugno 2020, disponibile online.
20 Stephanie Phillips, Exploring Mixed Race Identity in CGI Influencers, «Dazed Digital», 26 settembre 2018, disponibile online.
21 Paul. B. Preciado, Testo tossico: Sesso, droghe e biopolitiche nell’era farmacopornagrafica, Trad. di Elena Rafanelli, Roma: Fandango Libri, 2015, p. 40.
22 Stelarc, “Beyond the Body: Amplified Body, Laser Eyes, and Third Hand” (1986) in Theories and Documents of Contemporary Art: A Sourcebook of Artists Writing, a cura di Kristine Stiles e Peter Howard Selz, Berkeley: University of California Press, 1996, pp. 427-30, TdT.
23 David M. Ewalt, The First Real Boom in Virtual Reality? It’s Pornography, «The Wall Street Journal», 11 luglio 2018, disponibile online.
24 Gasworks, Sidsel Meineche Hansen: SECOND SEX WAR, «e-flux announcement», 14 marzo 2016, disponibile online.
25 EJ Dickinson, Thanks to COVID-19, Internet-Connected Sex Toy Sales Are Booming, «Rolling Stone», 31 marzo 2020, disponibile online.
26 Ralph Russo e Christophe Ramstein, Wearables and the ‘Neo-Sensory Age’, «Wired», agosto 2018, disponibile online.
27 Donna J. Haraway, Manifesto cyborg: Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Trad. Liana Borghi, Milano: Feltrinelli, 2018, p. 88.
28 I batteri per la produzione del lavoro di Kline sono stati campionati dai luoghi seguenti: a Minneapolis, il reparto di caccia di un Walmart, il nastro di una cassa di un Home Depot, i volantini forniti a una postazione di reclutamento militare per l’esercito degli Stati Uniti, un tavolo di McDonald’s e il retro di un TIR; a San Francisco, il quartier generale di Twitter, una concessionaria Tesla, il ristorante Chez Panisse, un autobus di Facebook e una palestra Equinox; a Miami, l’Hotel Delano, il Miami Beach Convention Center, lo Standard Spa & Hotel, il ristorante Joe’s Stone Crab e uno yacht di lusso.
L’IO ALLO SCHERMO
Pavel Pyś riflette su “The Body Electric”
In questo saggio, il curatore Pavel Pyś riflette sulla mostra “The Body Electric,” esplorando le pratiche artistiche che hanno riflettuto in maniera critica sulla tecnologia per sollevare questioni legate alla rappresentazione del corpo, soprattutto in termini di identità, incarnazione, discendenza, genere, sessualità, classe e appartenenza.
Trisha Baga, Mollusca & The Pelvic Floor, 2018. Veduta dell’installazione nella mostra “The Body Electric,” Walker Art Center, Minneapolis. Foto: Bobby Rogers.
La mostra “The Body Electric”1 è nata in risposta a una constatazione frustrante, ossia che il lavoro di un gruppo di artisti, più o meno della stessa età, veniva mostrato prevalentemente nel contesto della loro generazione.2 Tra quelli, la maggior parte aveva a che fare con le nuove tecnologie (come stampa 3D, motion capture, avatar, animazioni generate al computer) e molti venivano definiti “arte post-internet”—un termine che, al momento dell’apertura della mostra, era ormai esausto e di poco uso.3 L’idea è stata quella di creare un albero genealogico intergenerazionale dove inserire questi artisti emergenti e mid-career, promuovendo così pratiche artistiche fino ad allora trascurate e mostrando un sano scetticismo verso le novità della tecnologia. Gli artisti in mostra condividono la ricerca sul corpo e sulla sua immagine mediata, da cui sollevano questioni importanti legate alla rappresentazione, in termini di identità, incarnazione, discendenza, genere, sessualità, classe e appartenenza. Come Alice che scompare attraverso lo specchio, così questi artisti superano con agilità i confini che separano il mondo fisico dalla sua dimensione a schermo, rendendo pressoché indistinguibili le differenze tra bidimensionalità e tridimensionalità, reale e virtuale, analogico e digitale. Ma quando tali distinzioni iniziano a dissolversi, in quale modo gli artisti mettono in discussione il presente e ci mettono in guardia dal futuro prossimo?
Il tempo è una forza umiliante, poiché il suo trascorrere minaccia di trasformare in residui retro-futuristici del presente quelle che erano le proposte del passato per il futuro. Questo saggio si dedica all’approfondimento di alcune opere esposte in “The Body Electric,” ciascuna delle quali esplicita una costellazione di preoccupazioni che hanno una rilevanza specifica per la contemporaneità. Mentre alcune opere d’arte del passato risultano ora particolarmente lungimiranti poiché hanno anticipato il presente, quelle realizzate oggi rimangono riflessioni sperimentali sul qui e ora, non essendo state ancora verificate dalla marcia inesorabile del tempo. Con uno sguardo tanto su artisti storici quanto su quelli contemporanei, “The Body Electric” si è chiesta in quale modo le opere d’arte assumono nuova importanza e significato a seconda del momento storico in cui ci si trova. È del tutto possibile—anzi, probabile—che, se questa mostra (e, per estensione, questo saggio) dovesse manifestarsi tra dieci, venti o trent’anni, molti artisti esclusi ora esigerebbero di essere inclusi. Così, dall’osservatorio del 2021, questo testo prende atto delle lacune che spero possano essere perdonati da chi lo leggerà in futuro.
Martine Syms, Notes on Gesture, 2015. Still da video. Video monocanale (colore, suono); 10:27 minuti in loop. Image copyright: Martine Syms. Courtesy dell’artista, e Bridget Donahue, New York
Nel saggio “Il video e l’estetica del narcisimo” (1976), Rosalind Krauss ipotizza che “il ripiegamento sull’Io—cioè la situazione in cui il corpo o la mente diventano i limiti del proprio mondo—si trova ovunque nel corpus della videoarte.”4 Osservando il lavoro di Vito Acconci, Lynda Benglis e Bruce Nauman, Krauss riconosce i diversi gradi di distanza critica con cui gli artisti si avvicinavano a questo medium allora nascente. Ciononostante, stabilisce che la videoarte è una “situazione psicologica” poiché, attraverso il rispecchiamento, fa crollare il confine tra l’artista e la sua rappresentazione, tra il soggetto e l’oggetto.
STRUMENTALIZZANDO L’INTERAZIONE TRA IL PROPRIO CORPO E LA SUA IMMAGINE DAL VIVO SULLO SCHERMO TELEVISIVO—CHE JOAN JONAS DEFINÌ UNO “SPECCHIO CONTINUO”—QUESTA PRIMA GENERAZIONE DI VIDEOARTISTI HA UTILIZZATO L’IMMAGINE IN MOVIMENTO COME UN MEZZO PER FRANTUMARE LA REALTÀ, NON SOLO STRATIFICANDO LO SPAZIO E IL TEMPO MA ANCHE COMBINANDO IL MONDO FISICO CON LE SUE RAPPRESENTAZIONI MOLTIPLICATE.
Strumentalizzando l’interazione tra il proprio corpo e la sua immagine dal vivo sullo schermo televisivo—che Joan Jonas definì uno “specchio continuo”—questa prima generazione di videoartisti ha utilizzato l’immagine in movimento come un mezzo per frantumare la realtà, non solo stratificando lo spazio e il tempo ma anche combinando il mondo fisico con le sue rappresentazioni moltiplicate.5 Oggi questa fusione viene percepita in maniera ancora più intensa: a causa della pandemia da COVID-19, il tempo trascorso davanti agli schermi è aumentato vertiginosamente e, al momento, la maggior parte delle nostre interazioni avviene tramite i social media.6 Dalle nostre case, dove siamo relegati come mai prima d’ora, stiamo affrontando il mondo esterno attraverso uno schermo. Allo stesso modo, gli artisti riuniti nella sezione della mostra ‘Performare per la macchina fotografica,’ hanno girato l’obiettivo sul proprio corpo per porre domande che riguardano questioni legate alla razza, nazionalità, sessualità, identità LGBTQIA + e femminilità. I loro autoritratti sono immagini affini ai selfie odierni i quali, a loro volta, rinnovano l’importanza delle riflessioni di Krauss sul narcisismo. L’arte rispecchia la vita e viceversa, e queste opere ci invitano a fare più attenzione alle condizioni della nostra quotidianità, soprattutto alla luce del modo in cui i social media alimentano modelli comportamentali narcisistici e compulsivi di autopromozione e performatività.7
All’interno di questa sezione, un gruppo di opere di Cindy Sherman, Lorna Simpson e Amalia Ulman offre una lente attraverso cui esaminare come i media modellano la nostra comprensione della bellezza e della femminilità. Untitled (1981) di Sherman e LA’57-NY’09 (2009) di Simpson sovvertono entrambi il linguaggio visivo (e le aspettative che lo accompagnano) della ragazza pin-up, tipicamente volto a soddisfare il piacere dello sguardo maschile. Nell’opera Untitled—concepita per Artforum come una doppia pagina centrale, sul modello delle riviste erotiche maschili—vediamo Sherman in uno stato emotivo disturbato. Illuminata dai riflettori, l’artista appare spaventata e spettinata, cosicché la fotografia comunica un senso di terrore e inquietudine, piuttosto che mantenere una promessa lasciva e provocante. Il lavoro di Simpson sfuma i contorni tra il reale e l’immaginario accostando due serie di immagini: da una parte, fotografie scattate a Los Angeles nel 1957 e acquistate dall’artista su eBay che ritraggono donne non identificate (e occasionalmente uomini) posare nel popolare stile pin-up, dall’altra autoritratti dell’artista che replicano fedelmente l’ambientazione e le pose delle immagini originali. Viste insieme, le immagini di Simpson rivelano le modalità secondo le quali ci presentiamo attraverso scelte di stile, abbigliamento e linguaggio del corpo. Nella serie Excellences and Perfections (2014), Amalia Ulman estende le preoccupazioni di Simpson e Sherman al contesto di Internet e dei social media. Per cinque mesi, attraverso i suoi profili Instagram e Facebook, Ulman ha impersonato la figura vacua di una beauty blogger producendo un flusso di immagini curato meticolosamente, tra interni eleganti, prodotti di lusso e languidi selfie. Al limite tra critica ed emulazione eccessiva, la serie solleva questioni che riguardano il privilegio (in particolare bianco) e la mercificazione del sé attraverso la promozione del proprio stile di vita. Chi simpatizza con Ulman potrebbe considerare Excellences and Perfections un atto di “frivolezza sovversiva”. Secondo l’antropologa Crystal Abidin infatti, tale comportamento da influencer online—nascosto intenzionalmente dietro a una modalità di comunicazione vacua e presuntuosa—è uno strumento produttivo e positivo.8 Altri potrebbero schierarsi con l’interpretazione della curatrice e scrittrice Legacy Russell, che lo ritiene insufficiente per affrontare in modo critico la stessa piattaforma che sfrutta, diventando così “uno sfoggio infelice di privilegi, ossessionato da una sorta di ‘passing’ socioeconomico che non è stato messo in discussione da un pubblico avvezzo al consumo ingordo dei super ricchi.”9 Riflettendo sui selfie nel 2012, il critico Brian Droitcour scriveva che “l’estetizzazione della vita quotidiana nei social media… ha privato i media di massa dell’autorità della creazione delle immagini.”10 Insieme, questi lavori di Sherman, Simpson e Ulman mettono alla prova le affermazioni di Droitcour che, alla luce del nostro presente, risultano tristemente ottimiste.
Veduta della mostra “The Body Electric,” Walker Art Center, Minneapolis, 2019. Foto: Bobby Rogers
Molte delle artiste e degli artisti in mostra, come Laurie Anderson, Ed Atkins, Zach Blas, Peter Campus, Lynn Hershman Leeson, Pierre Huyghe, Sondra Perry e Ulrike Rosenbach, hanno esplorato la trasposizione (o trascendenza?) dell’Io incarnato nell’ambiente virtuale attraverso l’uso di avatar. Simili approssimazioni digitali sono proliferate selvaggiamente negli ultimi due anni: nel 2019 Apple ha rilasciato la funzione Memoji, mentre nel 2020 Facebook ha presentato per la prima volta la funzione Avatars—entrambe generano ritratti cartoon personalizzabili dei propri utenti. Ormai gli avatar sono sempre più comuni nella nostra vita quotidiana: comunicano con noi come assistenti virtuali tramite algoritmi che elaborano il linguaggio naturale e addirittura ci controllano al nostro arrivo in aeroporto.11 Negoziamo la nostra presenza online (o la sua mancanza, come dimostra il lavoro dei gruppi che difendono i diritti delle persone disabili e che richiedono emoji più diversificate)12 persino dopo la morte, dal momento che i profili social di chi è deceduto ci costringono ad affrontare nuove dimensioni del dolore e lutto.13 I contorni di ciò che è reale e ciò che è virtuale si stanno spostando: “AFK” (“Away From Keyboard” o “lontano dalla tastiera”) sta diventando una descrizione del “reale” più accurata di “IRL” (“In Real Life” o “nella vita reale”), poiché gran parte delle nostre vite avviene già nel cyberspazio. Il teorico dei media Marshall McLuhan aveva previsto questo spostamento nel libro Gli strumenti del comunicare (1964), dove sostiene come le tecnologie comunicative in rapido sviluppo fossero estensioni non solo del nostro corpo, ma anche di noi stessi: “In quest’era elettrica ci vediamo… avanz[are] verso l’estensione tecnologica della coscienza.”14 Ma cosa dire, allora, del corpo e di ciò che lo circonda in maniera più immediata e tangibile? Il digitale vende l’illusione dell’immaterialità: la cloud è infatti una metafora misteriosa di opacità e assenza di gravità. Tuttavia, come afferma lo scrittore e artista James Bridle in Nuova Era Oscura (2019), dietro al suo velo si nasconde “un’infrastruttura fisica composta di linee telefoniche, fibre ottiche, satelliti, cavi sul fondo dell’oceano e giganteschi magazzini pieni zeppi di computer che consumano quantità ingenti di acqua ed energia, e che dal punto di vista legale fanno capo a giurisdizioni nazionali.”15 Questi due ambiti, ossia on/offline, fisico/virtuale, qui/là, sono inestricabilmente interdipendenti e decisamente reali. Nelle mani degli artisti, gli avatar si offrono come strumento per spingere la tensione tra reale e virtuale oltre ai limiti a cui i nostri corpi e le nostre menti sono legati. Dove finisce il sé incarnato e inizia la propria entità virtuale disincarnata?
Ed Atkins, Happy Birthday!!, 2014. Still da video. Video HD, suono; 6:32 min. Courtesy dell’artista; e Cabinet, Londra
In Happy Birthday!! di Ed Atkins (2014), incontriamo un personaggio maschile altamente realistico realizzato in CGI, che borbotta un elenco apparentemente arbitrario di anni, giorni e codici temporali, come se lottasse per ricordare un evento passato significativo. Mentre cerca tra i suoi “ricordi,” vediamo apparire un collage di immagini—varie animazioni vorticose in CGI, un cielo notturno, una camera da letto—che ha come colonna sonora una canzone patetica e straziante di Elvis Presley, Always on My Mind. Atkins ha descritto Happy Birthday!! come un’opera carica di una “nostalgia terribile,” come una meditazione dolorosamente malinconica sulla memoria e il nostro essere mortali.16 Anche se il suo aspetto è iperreale, il protagonista dell’opera è comunque radicato nel mondo reale. Ha un legame diretto con lo stesso Atkins, che fornisce all’avatar la voce e i movimenti del viso, che sono stati registrati dall’artista in motion-capture mentre li esegue davanti a una telecamera. Le fattezze CGI del personaggio acquistano la verosimiglianza da un modello reale, cioè da una persona che è stata scansionata in un avatar, che è stato poi acquistato da Atkins tramite TurboSquid, un sito Web che fornisce modelli stock 3D da utilizzare in giochi per computer, intrattenimento per adulti e render architettonici. L’incontro inquietante con il protagonista confuso e stordito dell’opera di Atkins porta a una domanda scomoda: riesci a entrare in empatia con un avatar? O viceversa: l’agente K e la sua compagna olografica Joi nel film Bladerunner 2049 potrebbero davvero amarsi? Queste non sono domande inverosimili o speculative: stiamo già sviluppando relazioni con compagni dall’intelligenza artificiale. Nel 2016, la società giapponese Gatebox ha presentato Azuma Hikari, un’assistente virtuale con funzione di “moglie rassicurante,”17 la cui immagine olografica in stile anime fluttua all’interno di un contenitore trasparente, come una Campanellino intrappolata.18 Azuma potrebbe inviarti un messaggio provocante mentre sei al lavoro, al tuo comando può attivare elettrodomestici intelligenti, e offre la compagnia di una fidanzata. Pur essendo ancora un settore agli inizi, compagni virtuali come Azuma ci obbligano a considerare il versante emotivo delle nostre relazioni con avatar dall’intelligenza artificiale, aprendo a nuove dimensioni di intimità, empatia e solitudine.
Sondra Perry, Graft and Ash for a Three Monitor Workstation, 2016. Veduta dell’installazione nella mostra “The Body Electric,” Walker Art Center, Minneapolis. Foto: Bobby Rogers.
Sondra Perry impiega gli avatar per affrontare i pregiudizi intrinseci alla tecnologia, soprattutto quelli che riguardano il genere e la razza. Graft and Ash for a Three Monitor Workstation (2016) consiste in una postazione di lavoro con cyclette integrata, un tipo di arredo per ufficio che rafforza in maniera nauseante la celebrazione della produttività capitalista: i lavoratori non solo svolgono le proprie mansioni, ma tonificano anche i loro corpi allenati. Perry ha montato tre schermi sulla cyclette, tramite i quali l’avatar dell’artista narra una storia in cui descrive i limiti del software che l’ha creata: “Non era in grado di visualizzare il suo essere sovrappeso… Il tipo di corpo di Sondra non era incluso tra i modelli standard disponibili.” Qualsiasi umorismo inerente al racconto impassibile dell’avatar svanisce rapidamente se si considerano i molti problemi che le persone di colore si trovano ad affrontare in relazione alle nuove tecnologie. Diversi studi recenti hanno dimostrato infatti che il software di riconoscimento facciale utilizzato dalla polizia negli Stati Uniti identifica molto più frequentemente individui non bianchi,19 mentre apparecchi ordinari come i distributori automatici di sapone non sono in grado di riconoscere i toni di pelle più scuri.
La tecnologia rispecchia la società da cui è sviluppata, come si è visto con il fiasco di Tay, un chat bot dall’intelligenza artificiale rilasciato da Microsoft su Twitter nel 2016. Chiuso poco dopo il suo lancio a causa dell’elevato trolling, il bot aveva assimilato rapidamente le frasi offensive con cui veniva nutrito e aveva iniziato a rigurgitare tweet a sfondo razzista ed erotico. Lo scandalo Tay porta in primo piano la domanda: “A chi appartiene davvero la visione del mondo che la tecnologia riflette?” Nel dare forma alla nostra presenza digitale, ci troviamo di fronte non solo alla questione di come mediamo la nostra identità online, ma anche i nostri corpi. Tali problematiche sono state messe in evidenza dal lavoro di gruppi di attivisti come World White Web, un sito che pone l’attenzione sul predominio delle immagini di corpi bianchi su Internet, così come dal lavoro di coloro che lottano per la diversità nei toni di pelle delle emoji.
Tali questioni, come abbiamo visto nel caso di Azuma Hikari, acquisiscono una complessità e ambiguità maggiori quando ci confrontiamo con quegli avatar che non corrispondono a una persona reale. Nel 2016, la start-up di Los Angeles Brud ha lanciato su Instagram l’influencer Lil Miquela, un avatar aziendale che da allora ha pubblicizzato grandi marchi e persino sostenuto cause come Black Lives Matter, DACA e i diritti delle persone trans. Lil Miquela è di discendenza mista e identità biculturale (metà spagnola e metà brasiliana) che però non riflettono quelle dei suoi creatori. L’avatar è stato criticato non solo per la sua ipocrisia, ma anche per la rappresentazione di un personaggio la cui discendenza è volutamente ambigua così da dare “ai marchi la libertà di agganciarsi a messaggi chiave woke sulle politiche identitarie, senza dover affrontare la realtà caotica che spesso accompagna questi argomenti complessi.”20 Il lavoro di Sondra Perry si addentra esattamente in questo territorio pieno di dilemmi irrisolti, ossia su come negoziamo i segni che identificano il nostro essere incarnato all’interno di quelle tecnologie digitali che spesso sono asservite agli scopi ambigui dei loro creatori capitalisti.
Sidsel Meineche Hansen, SECOND SEX WAR ZONE (dettaglio), 2016. Courtesy dell’artista; e Rodeo Gallery, Londra/Pireo.
Citando Donna Haraway, il teorico Paul B. Preciado scrive che: “Il corpo del ventunesimo secolo è una piattaforma tecno-vivente, il risultato di un’implosione irreversibile delle nozioni di soggetto e oggetto, di naturale e artificiale.”21 La riflessione di Preciado sul divario umano-macchina obbliga a chiedersi: dove finisce la nostra carne e inizia la tecnologia? In quale modo gli artisti si sono rivolti alla prostetica e all’intelligenza artificiale per superare e riunire questo divario? Nel 1986, l’artista di performance Stelarc scriveva: “La pelle è diventata strumento inadeguato per interfacciarsi con la realtà… la tecnologia è diventata la nuova membrana dell’esistenza del corpo.”22 Se in quel momento la dichiarazione di Stelarc sembrava futuristica, ora annuncia un futuro che è più vicino di quanto immaginiamo. Anche se molti dispositivi indossabili non hanno avuto successo (come Google Glass), altre “tecnologie epidermiche” che offuscano il confine tra corpo e dispositivo (in particolare dispositivi sportivi come fitbits e gioielli intelligenti) sono molto richieste.
Il lavoro di Lynn Hershman Leeson e Sidsel Meineche Hansen critica le membrane della piattaforma tecno-vivente, specialmente in relazione al corpo femminile e alla sua mercificazione per il consumo, il piacere e la gratificazione sessuale. Deep Contact (1984-1989) è una delle prime installazioni interattive di Leeson, originariamente installata con una telecamera di sorveglianza per rilevare la presenza di un visitatore nello spazio. “Toccami,” mormorava Marion, la protagonista dell’opera, con la quale siamo invitati a interagire tramite un televisore touchscreen. Ogni parte del corpo di Marion innesca una serie diversa tra cinquantasette eventi possibili: premendo la sua testa, per esempio, si attivano brevi resoconti di come la televisione modella la percezione del corpo delle donne. Ma cosa comporta il dare istruzioni a Marion? Come vengono affrontate le dimensioni del potere in questo incontro voyeuristico? Quali sono le implicazioni della dinamica tra utente e servitore, tra umano e Marion?
Domande simili alimentano SECOND SEX WAR (2016), il corpus di lavori che Hansen ha realizzato in seguito alla sentenza emessa nel 2014 dal British Board of Film Classification che limitava la visibilità di alcune scene (come l’eiaculazione femminile) nella pornografia prodotta nel Regno Unito. In risposta a questa decisione, Hansen ha acquistato su TurboSquid EVA v3.0, un avatar royalty-free con cui ha creato l’opera DICKGIRL 3D (X) (2016). Tramite un visore Oculus Rift per la realtà virtuale, l’animazione CGI ipersessualizzata mostra EVA v3.0 dotata di genitali protestici mentre fa sesso con una massa amorfa. I movimenti del personaggio sono stati modellati a partire da film pornografici, proprio come gli avatar di Atkins sono stati modellati a partire da un essere umano. Poco tempo fa si stimava che entro il 2020 l’industria della realtà virtuale per l’intrattenimento degli adulti avrebbe raggiunto il valore di 1 miliardo di dollari, trainando così, insieme ai videogiochi, gran parte dell’innovazione tecnologica. Tuttavia, come abbiamo visto per il razzismo sistemico, è proprio online che emergono le problematiche legate alla rappresentazione del corpo per il piacere.23 Verrebbe quindi da chiedersi in quale modo la nuova tecnologia codifica un corpo femminile attraente, quando la sua percezione dominante è radicata nel patriarcato eteronormativo. Hansen ha scelto deliberatamente di generare DICKGIRL 3D (X) nella realtà virtuale per affrontare la “produzione di porno post-umano dal suo interno,” sfruttando la stessa tecnologia su cui l’industria del porno sta attualmente investendo in maniera più aggressiva.24 Il lavoro viene usufruito indossando un visore e sdraiandosi su una poltrona a sacco in pelle vegana, costringendoci così a confrontarci non solo con l’immaginario a cui fa riferimento, ma anche con l’hardware che ne permette l’esperienza. In questo modo, il lavoro di Hansen può anche essere messo in relazione con l’industria teledildonica, ossia di giocattoli sessuali interattivi che sincronizzano gli utenti online e che, tramite tecnologia aptica, facilitano il loro contatto reciproco nonostante la distanza. Si tratta di un altro settore in forte espansione a causa della pandemia poiché per molte persone non sono solo gli incontri sociali ad avvenire online, ma anche quelli sessuali. Tuttavia, queste innovazioni ci costringono a mettere in discussione l’infrastruttura che costruisce e supporta tali esperienze.25 Nel 2018, Ralph Russo e Christophe Ramstein, allora leader della società di sensori aptici Novasentis, annunciarono l’alba dell’era “neosensoriale,” “in cui dispositivi elettronici precedentemente inanimati prendono vita grazie al tocco [umano] e [a cui rispondono tramite il] feedback tattile.”26
Utilizzando le tecnologie a loro disposizione, sia Leeson sia Hansen ci invitano a riconsiderare la nostra comprensione del tatto, del piacere e del desiderio all’interno di questi nuovi ambienti mediati, non solo gli uni rispetto agli altri ma anche in relazione alla macchina, che ormai si può considerare vivente. Vale la pena tornare a Haraway, la cui teoria cyborg postula che la tecnologia si basa su “la traduzione del mondo in un problema di codifica, una ricerca di un linguaggio comune in cui scompaia ogni resistenza al controllo strumentale e ogni eterogeneità possa venire sottoposta al disassemblaggio, al riassemblaggio, all’investimento e allo scambio.”27 Insieme a molte altre voci in “The Body Electric,” da Gretchen Bender a Dara Birnbaum, a Zach Blas, Sondra Perry e Martine Syms, Leeson e Hansen mettono in dubbio i mezzi con i quali la tecnologia computa la realtà, chiedendosi: “Quali possibilità abbiamo per resistere a quelle categorie normative che costantemente si traducono in controllo e dominazione?”
Carolyn Lazard, In Sickness and Study, (2015-in corso). Veduta dell’installazione nella mostra “The Body Electric,” Walker Art Center, Minneapolis. Foto: Bobby Rogers.
Mentre gran parte di “The Body Electric” esamina le modalità con cui definiamo il nostro Io in relazione allo schermo, la sezione finale della mostra esplora come il corpo diventa poroso, liquido e soggetto a trasformazioni da parte di forze interne o esterne. Molte delle pratiche artistiche riunite ne ‘Il corpo malleabile’, come quelle di cui Jes Fan, Josh Kline, Carolyn Lazard, Candice Lin, Marianna Simnett, Patrick Staff e Anicka Yi, si domandano in quale modo sostanze molecolari invisibili, come ormoni o batteri, assumono connotazioni di senso, genere o razza.
La ricerca di Kline e Lazard, che si concentra su questioni legate alla salute, ha acquisito un significato particolare durante la pandemia. Per esempio, il lavoro Share the Health (2011-in corso) di Kline consiste in una serie di distributori di disinfettante per le mani—oggetti che, a partire da marzo 2020, sono ormai onnipresenti. Ciascun distributore è riempito con un gel ricco di batteri e sostanze nutritive che, con il passare del tempo, dà vita a un paesaggio in decomposizione. I batteri sono stati raccolti in luoghi scelti dall’artista a seconda della città dove la mostra era allestita, facendo così di ogni distributore un ritratto con connotazioni di classe e appartenenza.28 Inoltre, privati del loro scopo disinfettante, i distributori rendono visibile la presenza costante di agenti patogeni che non vediamo, anche quando cerchiamo freneticamente di proteggere la nostra pelle e l’ambiente circostante. In Sickness and Study (2015-in corso) è invece un lavoro di Lazard creato originariamente per Instagram che documenta le infusioni di ferro intravenose bisettimanali che l’artista riceve come trattamento per i suoi disturbi autoimmuni. Ogni immagine, scattata nella stanza dell’ospedale in cui si trova, mostra la sua mano mentre regge la copertina di qualsiasi libro stia leggendo in quel momento. Sotto molti aspetti, In Sickness and Study è una conclusione adeguata per “The Body Electric” nel 2021: il lavoro rende il corpo di Lazard visibile nell’affrontare i codici sociali che informano la nostra comprensione della malattia e della cura. Se in passato la stanza d’ospedale poteva essere un luogo di guarigione, la pandemia da COVID-19 ha trasformato le nostre case in luoghi di convalescenza dove siamo costretti ad autoisolarci. È impossibile guardare questo lavoro oggi senza che ci vengano ricordate le spiccate disuguaglianze nell’accesso all’assistenza sanitaria, nonché della sfiducia che molte comunità di colore hanno nei confronti delle vaccinazioni—una privazione di diritti umani perpetuata da un sistema sanitario che nella sua struttura è razzista. Infine, come gran parte di “The Body Electric,” la serie di Lazard ci ricorda che le nostre vite sono negoziate nell’interstizio tra il qui e ora e lo spazio infinito e atemporale dello schermo. Mentre la tecnologia media le nostre vite in modi sempre più complessi, il lavoro di tante artiste e tanti artisti in mostra sintetizza la tensione tra due le polarità che affrontiamo ogni giorno: il fascino verso le nuove possibilità della tecnologia e lo scetticismo verso i suoi scopi, spesso sinistri e invisibili.
—Traduzione dall’inglese
di Bianca Stoppani
Pavel S. Pyś, Curatore per le Arti Visive, Walker Art Center, Minneapolis
Pavel S. Pyś è Curatore delle Arti Visive presso il Walker Art Center di Minneapolis. Qui, Pavel ha curato progetti per le gallerie, il teatro e il giardino delle sculture, tra cui la mostra collettiva “The Body Electric” e progetti personali con Daniel Buren, Paul Chan, Michaela Eichwald, Carolyn Lazard ed Elizabeth Price. È stato Curatore presso l’Henry Moore Institute di Leeds tra il 2011 e il 2015.
1 “The Body Electric” è stata presentata per la prima volta al Walker Art Center, Minneapolis nel marzo 2019, e successivamente allo Yerba Buena Center for the Arts, San Francisco (settembre 2019-febbraio 2020) e al Museum of Art and Design, Miami Dade College (novembre 2020-maggio 2021).
2 Come le mostre “Speculations on Anonymous Materials” (2013) e “Inhuman” (2015), curate da Susanne Pfeffer presso il Fridericianum, Kassel; e “Art Post-Internet” (2014), curata da Karen Archey presso UCCA – Ullens Center for Contemporary Art, Pechino.
3 Si veda Brian Droitcour, The Perils of Post-Internet Art, «Art in America», 29 ottobre 2014, disponibile online.
4 Rosalind Krauss, “Video: The Aesthetics of Narcissism,” «October», 1 (Primavera 1976), p. 53 (TdT).
5 Karin Schneider, Joan Jonas by Karin Schneider, «BOMB», 1 luglio 2010, disponibile online.
6 Si veda Jeremy Engle, How Worried Should We Be About Screen Time During the Pandemic?, «The New York Times», January 22, 2021, disponibile online.
7 Per un’analisi della relazione tra social media e narcisismo, si veda Laura E. Buffardi e W. Keith Campbell, Narcissism and Social Networking Web Sites, «Personality and Social Psychology», Bulletin 34, Numero 10 (2008), pp. 1303-14.
8 Crystal Abidin, Aren’t These Just Young, Rich Women Doing Vain Things Online?: Influencer Selfies as Subversive Frivolity, «Social Media + Society», Volume 2, Numero 2 (11 aprile 2016), disponibile online.
9 Legacy Russell, Glitch Feminism: A Manifesto, Londra/New York: Verso, 2020, p. 105 (TdT).
10 Brian Droitcour, Let Us See You See You, «DIS Magazine», 3 dicembre 2012, disponibile online.
11 Nel 2018, l’aeroporto di Auckland (Nuova Zelanda) ha presentato in anteprima VAI, l’ufficiale di biosicurezza dall’intelligenza artificiale, che esamina i passeggeri in arrivo alla dogana.
12 Come l’associazione benefica britannica Scope che, in occasione del World Emoji Day 2016, ha rilasciato una serie di nuove emoji che rappresentano corpi diversamente abili. Si veda Emily Reynolds, Where are all the disabled emoji? Scope releases icons to celebrate the Paralympics, «Wired», 14 luglio 2016, disponibile online.
13 Brandon Ambrosino, Facebook is a growing and unstoppable digital graveyard, «BBC Future», 13 marzo 2016, disponibile online.
14 Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, trad. di Ettore Capriolo, Milano: Garzanti, 1968, p. 77.
15 James Bridle, Nuova era oscura, trad. di Fabio Viola, Roma: NERO, 2019, p. 21.
16 Ed Atkins descrive Happy Birthday!! in un video promozionale per la sua mostra personale presso Kunsthaus Bregenz nel 2019. Kunsthaus Bregenz, Vermittlungsfilm: KUB 2019.01 Ed Atkins, YouTube video, 13 febbraio 2019, 16:57 min, disponibile online.
17 Come descritto da Gatebox sulla pagina del loro sito dedicata ad Azuma Hikari.
18 Ringrazio Zach Blas per aver portato alla mia attenzione Azuma Hikari.
19 Si veda Kashmir Hill, Wrongfully Accused by an Algorithm, «The New York Times», 24 giugno 2020, disponibile online.
20 Stephanie Phillips, Exploring Mixed Race Identity in CGI Influencers, «Dazed Digital», 26 settembre 2018, disponibile online.
21 Paul. B. Preciado, Testo tossico: Sesso, droghe e biopolitiche nell’era farmacopornagrafica, Trad. di Elena Rafanelli, Roma: Fandango Libri, 2015, p. 40.
22 Stelarc, “Beyond the Body: Amplified Body, Laser Eyes, and Third Hand” (1986) in Theories and Documents of Contemporary Art: A Sourcebook of Artists Writing, a cura di Kristine Stiles e Peter Howard Selz, Berkeley: University of California Press, 1996, pp. 427-30, TdT.
23 David M. Ewalt, The First Real Boom in Virtual Reality? It’s Pornography, «The Wall Street Journal», 11 luglio 2018, disponibile online.
24 Gasworks, Sidsel Meineche Hansen: SECOND SEX WAR, «e-flux announcement», 14 marzo 2016, disponibile online.
25 EJ Dickinson, Thanks to COVID-19, Internet-Connected Sex Toy Sales Are Booming, «Rolling Stone», 31 marzo 2020, disponibile online.
26 Ralph Russo e Christophe Ramstein, Wearables and the ‘Neo-Sensory Age’, «Wired», agosto 2018, disponibile online.
27 Donna J. Haraway, Manifesto cyborg: Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Trad. Liana Borghi, Milano: Feltrinelli, 2018, p. 88.
28 I batteri per la produzione del lavoro di Kline sono stati campionati dai luoghi seguenti: a Minneapolis, il reparto di caccia di un Walmart, il nastro di una cassa di un Home Depot, i volantini forniti a una postazione di reclutamento militare per l’esercito degli Stati Uniti, un tavolo di McDonald’s e il retro di un TIR; a San Francisco, il quartier generale di Twitter, una concessionaria Tesla, il ristorante Chez Panisse, un autobus di Facebook e una palestra Equinox; a Miami, l’Hotel Delano, il Miami Beach Convention Center, lo Standard Spa & Hotel, il ristorante Joe’s Stone Crab e uno yacht di lusso.