Distribuire la dipendenza per rigenerare la produzione artistica istituzionale
di Mason Leaver-Yap
Condividendo la sua esperienza di collaborazione artistica nell’ambito delle immagini in movimento, Mason Leaver-Yap problematizza le pratiche di produzione neoliberista offrendo contro-strategie di cura.
Onyeka Igwe, A So-Called Archive, 2020, video, 20’. Courtesy dell’artista, e KW Production Series. Co-commissionato da KW Institute of Contemporary Art, Berlino, e Mercer Union, Toronto; con il supporto di Julia Stoschek Collection e Outset Germany_Switzerland; e con il supporto aggiuntivo di Nasrin Himada, Adam Pugh e Tess Denman-Cleaver. Supportato usando i fondi pubblici di Arts Council England
Alla fine del 2020, Alessandro Rabottini mi ha proposto di scrivere un articolo che provasse ad esprimere “i paradigmi di cura che adotti nella tua pratica curatoriale”. Avendo lavorato nell’ambito artistico delle immagini in movimento dal 2006 – in modo indipendente e istituzionale; occupandomi di curatela, commissione, raccolta e distribuzione – l’idea di questo confessionale mi intrigava e infastidiva al tempo stesso. Raccontare nel dettaglio le pratiche di “cura curatoriale” può presentare delle difficoltà in un testo pubblico come questo, soprattutto perché a volte il sostegno implica il rifiuto di diffondere i particolari dei metodi usati dalle strutture burocratiche, amministrative e istituzionali per esercitare il loro potere sugli individui. Questo rifiuto non nasce dalla paura di denunciare lo sfruttamento, poiché lo sfruttamento è onnipresente e, molto spesso, nascosto in piena vista. Il timore è piuttosto dettato dalla possibilità di rivelare strade che i lavoratori culturali precari possono percorrere per ottenere protezione e indipendenza rispetto a condizioni restrittive, contratti rischiosi e ambienti lavorativi malsani. Scrivendone così apertamente, c’è sempre il rischio che questo insieme di strategie difensive offra alle organizzazioni sfruttatrici informazioni dettagliate sul modo in cui artisti e altri produttori culturali oppongono resistenza ai meccanismi adottati per limitare il loro controllo finanziario e creativo, neutralizzando dunque quelle difese.
L’altra sfida è evitare di ridurre la parola “cura”, sempre più usata (o abusata), a un modello o a un manifesto, provando invece a restare aderenti alle condizioni ambientali attraverso cui la cura, per sua stessa natura, si esercita. Le condizioni di produzione sono proprio così: condizionali, e mai quanto nell’ambito artistico delle immagini in movimento. Il motivo? Le immagini in movimento sono forse uno dei media più ramificati nell’arte contemporanea. È un ambito popolato in modo relazionale e interdipendente da esperti con capacità produttive dove spesso cast, troupe, ed espositori combaciano in maniera poco convenzionale. Affinché le immagini in movimento abbiano successo (e con ciò intendo che siano viste, ricordate e adoperate in ambiti didattici), serve una comprensione della distribuzione dell’opera che tenga in considerazione il pubblico in presenza, ma anche gli spettatori sparsi geograficamente. Serve una comprensione materiale di conservazione, restaurazione, scambio, duplicazione e sicurezza del formato, come pure una comprensione dei metodi di esposizione. È un medium che richiede dimestichezza con diversi linguaggi – visivo, tecnico, accessibile, legale – ma anche una continua reinvenzione ed espansione dei modi in cui questi linguaggi possono rapportarsi proficuamente l’uno con l’altro.
In breve, esistono molte variabili e pochi modelli; e questo significa che per proteggere efficacemente i produttori da pratiche coercitive, da commissioni e collezionismo sfruttatori, e dai potenziali rischi dell’esposizione, servono metodi specializzati. Non esiste un unico paradigma. Esistono, tuttavia, esperienze che possono essere descritte e condivise come esemplari. Proprio come la distribuzione dei ruoli nella produzione artistica delle immagini in movimento introduce un’interdipendenza, così anche il peso del rischio può essere redistribuito in maniera più equa. Quel che segue è un catalogo di situazioni, condizioni e frustrazioni incomplete che necessitano di più tempo e spazio dove imparare a esercitare il supporto che può condurre a esperienze produttive vantaggiose, emotivamente attente e generative. La mia interpretazione è personale e di parte. Così come parziale è anche il livello di dettaglio. Nel testo che segue l’anonimato, o l’assenza di descrizione, non sono una vaghezza dettata dall’omissione ma dalla necessità di proteggere i soggetti.
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Onyeka Igwe, A So-Called Archive, 2020, video, 20’. Courtesy dell’artista, e KW Production Series. Co-commissionato da KW Institute of Contemporary Art, Berlino, e Mercer Union, Toronto; con il supporto di Julia Stoschek Collection e Outset Germany_Switzerland; e con il supporto aggiuntivo di Nasrin Himada, Adam Pugh e Tess Denman-Cleaver. Supportato usando i fondi pubblici di Arts Council England
Uno dei modelli più elementari per distribuire la dipendenza e condividere il rischio è estendere il lavoro di produzione non solo tra creatori e produttori, ma anche tra istituzioni e collezioni, pubbliche e private.
Mentre i settori commerciali e industriali dei film e della televisione sono stati definiti storicamente come spazi di co-produzione, e spesso beneficiano di fondi e contributi governativi, nell’ambito di produzione artistica delle immagini in movimento ho notato per la prima volta co-commissioni a entrata mista durante la crisi finanziaria mondiale del 2007-2008. All’epoca, a Londra, piccoli spazi gestiti da artisti e gallerie no profit stavano subendo un taglio di fondi pubblici e le iniziative commerciali faticavano a vendere qualcosa oltre ai dipinti. Tra questi spazi cominciarono a nascere collaborazioni spontanee e a tratti acritiche, che andavano oltre la mera sopravvivenza e creavano nuovi modelli interessati alla visibilità.
Come ha commentato duramente Ian White, scrittore e curatore nell’ambito delle immagini in movimento, parlando dal pubblico alla fine di “Independent spaces and emerging forms of connectivity”, un dibattito tenutosi nel 2008 all’Institute of Contemporary Art di Londra dove lavoravo: “L’importanza della visibilità sta proprio nel rapporto tra economia culturale ed economia finanziaria […]. Sembra che tutti dipingano un’immagine rosea dell’idea di collaborare e lavorare insieme e condividere il sapere. Ma mi sembra che all’interno dell’economia culturale, al momento, la competizione sia piuttosto accesa”1. Nessuno dopo White ha espresso più chiaramente i compromessi e la competizione vigenti tra queste due economie, un fatto che rivela la complessità e il progressivo coinvolgimento di quelli che in gergo neoliberista si potrebbero descrivere “filoni di reddito diversificati” tra vari “investitori” allo scopo di aumentare la visibilità, dove la visibilità è valore. Le collaborazioni tra queste istituzioni all’epoca, e le nuove forme di lavoro congiunto adottate adesso, erano e sono ben più rilevanti
Jamie Crewe, fotocopie da taccuino, veduta dell’installazione della mostra KW Production Series, KW Institute for Contemporary Art presso Julia Stoschek Collection Berlin, 2018. Foto di Frank Sperling. Courtesy dell’artista e KW Production Series. Co-commissionato da KW Institute of Contemporary Art, Berlino; e Tramway, Glasgow; con il supporto di Julia Stoschek Collection e Outset Germany_Switzerland
La collaborazione nata da una co-commissione non è per sua natura “migliore” rispetto alle commissioni finanziate singolarmente (che sono sempre più rare). Non è nemmeno neutrale. Nasce da un tentativo pragmatico di raccogliere un budget di produzione più ambizioso, che allarghi lo spettro e le possibilità dell’opera, migliorandone potenzialmente diversi aspetti, dalla durata della ricerca alla durata dell’opera in sé. Poiché le co-commissioni sono diventate comuni, tuttavia, curare la produzione artistica richiede una conoscenza sempre più dettagliata delle strutture organizzative coinvolte, con le loro motivazioni e le loro figure di rappresentanza. A livello basilare, per esempio, questi attori potrebbero includere curatore, produttore, collezionista museale o privato, sebbene i ruoli siano regolarmente sfocati e contaminati. È fondamentale verificare gli investimenti politici e finanziari di questi attori, poiché potrebbero rendere una collaborazione infattibile e/o immorale sia per il progetto sia per l’artista (mi riferisco in particolare al retroscena finanziario di collezionisti e alle sponsorizzazioni o ai legami dirigenziali delle associazioni no profit).
È importante capire le capacità di questi vari attori e quale contributo possono dare in ambito produttivo, ma è altrettanto importante prestare attenzione alle loro rigidità e superfluità (che possono consentire altra flessibilità, espedienti e libertà). In termini pratici, questo significa che un’istituzione potrebbe fornire finanziamenti all’inizio di un progetto, ma non supporto continuo; che una no profit potrebbe non avere un budget di partenza ma proporre soltanto un finanziamento combinato; che un’altra potrebbe avere scarsa liquidità ma offrire supporto materiale nella produzione; mentre una collezione senza possibilità di commissionare potrebbe offrire opportunità di esposizione, distribuzione e conservazione negli archivi. È la disparità, non l’uguaglianza, degli attori in gioco a dare adito a specifiche condizioni di produzione e al lavoro creativo.
Sebbene a volte sia vantaggioso a livello pratico e finanziario, l’intrico di molteplici strutture amministrative è, nell’insieme, un ambiente sfavorevole per il pensiero e la creazione artistica. Quindi il mio lavoro spesso consiste nel costruire relazioni e dipendenze tra le varie organizzazioni che (a volte all’insaputa l’una dell’altra) hanno obiettivi comuni, e poi portarle a compimento in periodi di tempo più lunghi rispetto a quelli concessi di norma nella produzione indipendente della “cultura contemporanea”, una cultura spesso caratterizzata dal ciclo routinario e incessante delle mostre temporanee e delle novità. Un’altra componente del mio lavoro è usare le risorse di queste parti per ricavare abbastanza tempo e spazio affinché l’artista possa districarsi tra strutture idiosincratiche, senza lasciarsi invischiare nei fardelli amministrativi della raccolta fondi, dei resoconti, degli aggiornamenti alle istituzioni2.
Rachel O’Reilly, INFRACTIONS, 2019, 63’. Courtesy dell’artista e KW Production Series. Co-prodotto da Julia Stoschek Collection e Outset Contemporary Art Fund in supporto a KW Production Series, con il supporto aggiuntivo di Australia Council e Museum Abteiberg
Rispetto alle normali capacità di una singola istituzione, i progetti produttivi che più mi affascinano, o che provo ad instaurare, spesso durano un anno e oltre, e che momenti brevi ma cadenzati di visibilità pubblica, per cui le istituzioni sono già attrezzate (conferenze, panel, performance, proiezioni), creano lungo il calendario di produzione un maggiore spazio dove l’artista può riflette sul e col pubblico, per poi far confluire quelle riflessioni nella realizzazione dell’opera. Oltre a questo desiderio di dialogo condiviso e rigore critico, cerco di enfatizzare il progetto di un artista affinché l’opera compiuta possa inserirsi in un contesto espositivo proficuo, che consenta di osservarla, esaminarla e reagire alle sue motivazioni e al suo contenuto. Acclimatare il pubblico alle future presentazioni facilita l’accesso all’opera, prepara l’artista al contesto dove apparirà il suo lavoro e prova a instaurare migliori interfacce e responsabilità tra l’artista e i collaboratori delle istituzioni, in momenti di bassa intensità. (In particolare presto attenzione a come gli artisti collaborano con i tecnici, il reparto finanziario e gli assistenti alla mostra, perché spesso questi rapporti sono più piacevoli se non sono dettati soltanto dal bisogno e dall’urgenza, costruendo invece uno scambio continuo che può essere riflessivo, curioso e previdente, anziché basato su quella terribile modalità contemporanea del “appena in tempo”, che racchiude numerosi compromessi e sacrifici).
Per chiarezza: questo modello produttivo ha un approccio opportunistico che funziona all’interno di strutture culturali neoliberiste. Anziché reinventare completamente quelle strutture di potere, rinnova e a volte aggira le modalità di lavoro istituzionali. Tuttavia, credo che privilegi la produzione di opere artistiche dove il contenuto delle immagini in movimento parla diversamente alle istituzioni e forse può addirittura opporre resistenza o denunciare l’ipocrisia di una struttura istituzionale, disintegrando dunque dei protocolli discutibili3. Inoltre, la natura molteplice di questi processi produttivi elude le convenzioni di una singola istituzione. Non dico che sia un approccio particolarmente radicale (in effetti, nel peggiore dei casi, si potrebbe definire questo approccio parassitario, perché richiede un coinvolgimento con le istituzioni, anziché uno scollamento totale); tuttavia, può essere adottato da chi sa notare i confini del controllo istituzionale entro o attorno a cui devono muoversi l’artista e la produzione, anziché accettarli passivamente. Questa modalità di lavoro può generare in maniera sostenibile profondità, critica e impegno.
Rachel O’Reilly, INFRACTIONS, 2019, 63’. Courtesy dell’artista e KW Production Series. Co-prodotto da Julia Stoschek Collection e Outset Contemporary Art Fund in supporto a KW Production Series, con il supporto aggiuntivo di Australia Council e Museum Abteiberg
Alcuni semplici esempi pratici: nel caso di un artista, il budget di produzione fornito da uno dei co-commissionanti non rispecchiava correttamente la quantità di lavoro e materiale previsti dal progetto, sebbene le condizioni di produzione e le opportunità di esposizione fossero ideali e avessero una buona tempistica. Come soluzione abbiamo proposto di dividere il film in due parti, per permettere all’artista di lavorare a un ritmo più sostenibile e con un sostegno prolungato. Ho chiesto alle organizzazioni e partner coinvolti di sostenere la prima opera, mentre nel frattempo approntavo un metodo di accesso che consentisse ai collezionisti di acquistare il secondo film – un’opera che non solo avrebbe completato il primo pezzo da collezione, ma avrebbe consentito un dialogo duraturo con l’artista per future esibizioni di opere inerenti alla collezione.
In un altro contesto, un’organizzazione no profit non poteva co-commissionare il film di un artista con la partecipazione di un collezionista privato, a causa della natura dei suoi finanziamenti governativi. Per sostenere il progetto, io e l’artista abbiamo collaborato con l’organizzazione no profit per produrre, pagare e tenere una serie di dibattiti pubblici nel corso del calendario di produzione, dove chiamavamo attivisti ed educatori a presentare la loro ricerca, che in questo modo andava a confluire nell’argomento del film, instaurando anche un coinvolgimento con gli spettatori locali che in seguito avrebbero composto il pubblico di riferimento alla première.
Raramente tutto fila lascio in una produzione diffusa, dove al contrario emergono gli aspetti sfruttatori, sfibranti e sacrificali del lavoro culturale. Ma questo genere di lavoro è incentrato sulla costruzione di rapporti che non solo attestano diverse prospettive sul lavoro e sulle condizioni lavorative, ma hanno anche la capacità di reagire. Mi è successo in diversi casi di assistere al licenziamento improvviso di alcuni membri dello staff dei partner istituzionali che avevano avuto un ruolo determinante nel processo di co-commissione all’artista. Data la natura a lungo termine di questi progetti co-commissionati e il coinvolgimento relazionale, ho visto gli altri partner assorbire i lavoratori disoccupati nelle loro strutture organizzative come collaboratori, curatori indipendenti e guest producer, spostando così il riconoscimento istituzionale a quello personale – com’era dovuto – e instaurando collaborazioni che ridefinivano condizioni contrattuali originariamente prestabilite.
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Non è certo una sorpresa che le posizioni istituzionali spesso entrino in conflitto con quelle personali. Tradizionalmente le istituzioni si arrogano lo sviluppo della proprietà intellettuale e il possesso di rapporti creativi all’interno di strutture definite – strutture dove il potere è incanalato dall’artista all’assistente della mostra, all’assistente curatore, al curatore, e infine al direttore che spesso è sinonimo dell’istituzione, attraverso una struttura tipicamente piramidale. I confini di queste rivendicazioni sono visibili a diversi livelli: dai loghi nelle newsletter, ai contratti con clausole per cui le parti esterne devono rimanere all’oscuro dei contenuti del contratto, dai disclaimer attentamente articolati sotto la firma delle mail istituzionali, fino alla conservazione sui domini e sui server istituzionali della corrispondenza mail e di testi del personale dipendente che oltrepassano il periodo del loro contratto di lavoro. Per ricorrere a un’espressione usata da Richard Birkett in una conversazione avvenuta di recente alla School of Visual Art, questa è una “trappola espropriante” tra lavoro e lavoratori4.
MENTRE ALCUNI ARTISTI E PRODUTTORI COSTRUISCONO EFFICACEMENTE (OPPURE INTERPRETANO ASTUTAMENTE) STRUTTURE ISTITUZIONALI PER SMORZARE OPPURE CONTESTARE IL POTERE DI ORGANIZZAZIONI CHE PROVANO A SFRUTTARE IL LORO LAVORO, C’È MOLTO DA DIRE SULL’UTILIZZO DELLA CO-COMMISSIONE QUALE STRUMENTO PER IMPORRE FLESSIBILITÀ ISTITUZIONALE COME CONDIZIONE PRODUTTIVA.
Mentre alcuni artisti e produttori costruiscono efficacemente (oppure interpretano astutamente) strutture istituzionali per smorzare oppure contestare il potere di organizzazioni che provano a sfruttare il loro lavoro, c’è molto da dire sull’utilizzo della co-commissione quale strumento per imporre flessibilità istituzionale come condizione produttiva. E sebbene io non voglia dipingere “un’immagine rosea” di queste collaborazioni, è chiaro che mantenere la produzione all’interno di singole istituzioni raramente è d’aiuto ai lavoratori culturali ospiti. Le strutture lavorative verticali e isolate non si formano attorno alle specificità o ai bisogni di una singola produzione, perché molto spesso la precedono con una serie di protocolli istituzionali antiquati che si impongono sul lavoro in modi impensabili, dove la negligenza istituzionale viene percepita e/o sperimentata soltanto dall’artista o dal produttore ospite, che in questo modo deve ricorrere alla rimostranza come meccanismo (estenuante) di rinnovamento. Lavorare con varie organizzazioni, invece, permette di avere un coinvolgimento particolare e selettivo in rapporti materialmente, strutturalmente ed emotivamente specifici all’opera in svolgimento, definiti e formati da lavoratori che si raccolgono, pur temporaneamente, attorno a un intenzione e a un desiderio condivisi.
— Traduzione dall’inglese di Alessandra Castellazzi
Mason Leaver-Yap collabora con artisti per realizzare eventi, testi e mostre. Vive a Glasgow.
1 Trascrizione, “Independent spaces and emerging forms of connectivity: Salon Discussion, Monday 23 June 2008”, in Nought to Sixty, a cura di Richard Birkett e Mason Leaver-Yap, Institute of Contemporary Arts, Londra, 2009, pagg 119-120. È importante sottolineare che qualche anno prima l’ICA aveva deciso di svendere gran parte della sua attrezzatura di ripresa analogica, in quella che era considerata una transizione progressiva ed esclusiva verso il digitale, ma per l’esposizione e le proiezioni che avevamo organizzato all’interno di Nought to Sixty, il progetto espositivo in occasione del sessantesimo anniversario della ICA – sessanta progetti nel corso di sei mesi – dovemmo noleggiare di nuovo la stessa attrezzatura a un costo molto più alto del budget programmato. Inoltre, l’istituzione aveva perso le competenze tecniche necessarie per installare, proiettare e conservare film a 16 mm, e così, oltre che co-dirigere il programma espositivo, mi mandarono a un corso per gestire l’installazione e il funzionamento dell’attrezzatura a livello tecnico, per contenere i costi. Cito questo esempio solo per indicare come l’idea di “condividere i saperi” fosse spesso confusamente richiesta dopo lo smantellamento tecnico delle istituzioni e usata più per necessità finanziarie che per investire nella crescita. Dopo aver lasciato quell’istituzione, il corso mi ha permesso di fornire assistenza tecnica nei 16 mm da freelance.
2 La priorità assoluta è comprare il tempo dell’artista pagando un buono stipendio e una commissione. In una produzione ho provato a raccogliere un budget partendo dalle varie esperienze degli artisti e dall’ampia varietà di competenze, dettagliandole, per co-commissionare la ricerca e sviluppo, la produzione, la post-produzione, l’attrezzatura e l’affitto dello studio, e ottenendo una commissione per ogni esposizione in varie location. L’obiettivo era assicurarmi che ognuna di queste voci di costo fosse reindirizzata all’artista, così che potesse dedicarsi per un anno intero all’opera e conservare tutta l’attrezzatura e gli strumenti di produzione acquistati come investimento per i progetti futuri. In un altro progetto simultaneo, un piccolo finanziamento di una fondazione pubblica ha garantito la liquidità sufficiente per avviare la produzione di un film, quasi fosse un progetto pilota, così l’artista ha potuto collaudare il lavoro con la nuova troupe, preparare l’accesso alle location su scala inizialmente limitata e guadagnare tempo finché non si è sbloccato un finanziamento più consistente dopo sei mesi.
3 Rivedere, o perlomeno riflettere, sui protocolli istituzionali che risultano in contrasto con l’argomento dell’opera realizzata, commissionata oppure esibita, dovrebbe essere una procedura prevista, anziché esperita nell’immediato dall’individuo. C’è una contraddizione orribile nel continuo coinvolgimento e apprendimento predatorio dell’arte contemporanea nei confronti degli artisti che lavorano con immagini in movimento incentrate sullo sradicamento, la discriminazione e la politica abolizionista, e il modo in cui questi artisti e i loro soggetti sono invitati e trattati dalle istituzioni. Forme elementari ma essenziali di supporto personale nei confronti di questi ospiti – come accoglierli all’aeroporto o al loro arrivo, mostrare il quartiere dell’istituzione, suggerire dove acquistare cibo locale, ma anche fornire contatti fuori orario – tendono a essere tralasciati dalle istituzioni che lavorano sotto pressione o a pieno regime, oppure vengono delegati ai membri dello staff più precari.
4 Richard Birkett e Mason Leaver-Yap, School of Visual Art MA Curatorial Practice, New York, venerdì 23 ottobre 2020 (via Zoom).
EN
1 Transcript, ‘Independent spaces and emerging forms of connectivity: Salon Discussion, Monday 23 June 2008,’ in Eds. Richard Birkett, Mason Leaver-Yap, Nought to Sixty, Institute of Contemporary Arts, London, 2009. Pp. 119-120. It is worth noting that in that time, the ICA had decided to cheaply sell off much of its analogue film equipment some years prior in what was deemed to be a progressive move towards digital-only display, but the exhibitions and screenings we were staging as part of Nought to Sixty, the ICA’s 60th anniversary exhibition project of 60 projects delivered over 6 months, required that we hire back that same equipment at much greater cost to the programming budget. Moreover, the institution no longer had the knowledge to install, run and maintain 16 mm film and so, as a cost-saving measure, I was sent off to learn how to technically handle the installation and running of the equipment, as well as co-run the exhibition programme. I use this example only to indicate the ways in which the idea of “knowledge-sharing” was often haphazardly required in the immediate aftermath of institutional deskilling, and deployed due to financial constraints rather than investment and growth. After leaving the institution, the training allowed me to work as a freelance 16 mm technician.
2 The biggest priority is buying out the artist’s time by paying them a good wage and fee. In one production, I sought to build a budget around the artists’ various expertises and wide skillset, itemising it for co-commissioners in terms of research and development, production, post-production, equipment and studio rental, and an exhibition fee for each venue. The goal was to ensure that each of these costings were routed back to the artist, so that they could spend a full year dedicated to making one work, and conserve all of the purchased production equipment and tools for future projects as an ongoing investment. In another simultaneous project, a small public commission fund allowed basic start-up cash for a film production as if the project were a pilot, so that the artist could try out working with new crew, prepare access to locations on an initially modest scale, and set aside time until a larger fund became available six months later.
3 Revisions of, or at the very least reflections on, institutional protocols that are inconsistent with the subject of the work being undertaken, commissioned, or exhibited should be expected, rather than experienced at immediate cost to an individual. There is a particularly horrific contradiction in contemporary art’s continuing engagement with and extractive learning from artists whose moving image work focuses on displacement, discrimination and abolitionist politics, and the ways in which both the artists and their subjects are invited and treated on entry into those institutions. Basic but crucial forms of in-person support for those guests–such as meet-and-greets at the airport or arrival hub, navigation around an institution’s neighbourhood, information about where to buy local food, as well as supplying out-of-hours support contacts, tend to be the first things to be left out by institutions operating under pressure or at capacity, or else delegated to the least secure members of staff.
4 Richard Birkett and Mason Leaver-Yap, School of Visual Arts MA Curatorial Practice, New York, Friday, October 23 2020 (delivered over Zoom).
Mason Leaver-Yap collabora con artisti per realizzare eventi, testi e mostre. Vive a Glasgow.
1 Trascrizione, “Independent spaces and emerging forms of connectivity: Salon Discussion, Monday 23 June 2008”, in Nought to Sixty, a cura di Richard Birkett e Mason Leaver-Yap, Institute of Contemporary Arts, Londra, 2009, pagg 119-120. È importante sottolineare che qualche anno prima l’ICA aveva deciso di svendere gran parte della sua attrezzatura di ripresa analogica, in quella che era considerata una transizione progressiva ed esclusiva verso il digitale, ma per l’esposizione e le proiezioni che avevamo organizzato all’interno di Nought to Sixty, il progetto espositivo in occasione del sessantesimo anniversario della ICA – sessanta progetti nel corso di sei mesi – dovemmo noleggiare di nuovo la stessa attrezzatura a un costo molto più alto del budget programmato. Inoltre, l’istituzione aveva perso le competenze tecniche necessarie per installare, proiettare e conservare film a 16 mm, e così, oltre che co-dirigere il programma espositivo, mi mandarono a un corso per gestire l’installazione e il funzionamento dell’attrezzatura a livello tecnico, per contenere i costi. Cito questo esempio solo per indicare come l’idea di “condividere i saperi” fosse spesso confusamente richiesta dopo lo smantellamento tecnico delle istituzioni e usata più per necessità finanziarie che per investire nella crescita. Dopo aver lasciato quell’istituzione, il corso mi ha permesso di fornire assistenza tecnica nei 16 mm da freelance.
2 La priorità assoluta è comprare il tempo dell’artista pagando un buono stipendio e una commissione. In una produzione ho provato a raccogliere un budget partendo dalle varie esperienze degli artisti e dall’ampia varietà di competenze, dettagliandole, per co-commissionare la ricerca e sviluppo, la produzione, la post-produzione, l’attrezzatura e l’affitto dello studio, e ottenendo una commissione per ogni esposizione in varie location. L’obiettivo era assicurarmi che ognuna di queste voci di costo fosse reindirizzata all’artista, così che potesse dedicarsi per un anno intero all’opera e conservare tutta l’attrezzatura e gli strumenti di produzione acquistati come investimento per i progetti futuri. In un altro progetto simultaneo, un piccolo finanziamento di una fondazione pubblica ha garantito la liquidità sufficiente per avviare la produzione di un film, quasi fosse un progetto pilota, così l’artista ha potuto collaudare il lavoro con la nuova troupe, preparare l’accesso alle location su scala inizialmente limitata e guadagnare tempo finché non si è sbloccato un finanziamento più consistente dopo sei mesi.
3 Rivedere, o perlomeno riflettere, sui protocolli istituzionali che risultano in contrasto con l’argomento dell’opera realizzata, commissionata oppure esibita, dovrebbe essere una procedura prevista, anziché esperita nell’immediato dall’individuo. C’è una contraddizione orribile nel continuo coinvolgimento e apprendimento predatorio dell’arte contemporanea nei confronti degli artisti che lavorano con immagini in movimento incentrate sullo sradicamento, la discriminazione e la politica abolizionista, e il modo in cui questi artisti e i loro soggetti sono invitati e trattati dalle istituzioni. Forme elementari ma essenziali di supporto personale nei confronti di questi ospiti – come accoglierli all’aeroporto o al loro arrivo, mostrare il quartiere dell’istituzione, suggerire dove acquistare cibo locale, ma anche fornire contatti fuori orario – tendono a essere tralasciati dalle istituzioni che lavorano sotto pressione o a pieno regime, oppure vengono delegati ai membri dello staff più precari.
4 Richard Birkett e Mason Leaver-Yap, School of Visual Art MA Curatorial Practice, New York, venerdì 23 ottobre 2020 (via Zoom).