Di Flavia Frigeri
Flavia Frigeri mappa le metodologie sovversive attraverso cui registe e artiste come Cecilia Mangini, Giosetta Fioroni, Marinella Pirelli, Laura Grisi, Ketty La Rocca e Nicole Gravier hanno impiegato i media fotografici e video per disarticolare le rappresentazioni patriarcali della femminilità.

Cecilia Mangini, Essere donne, 1965. Still da film. Film, colore, sonoro, 29:00 min. Courtesy Archivi AAMOD – Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico
Ci guardano dalle riviste e dai manifesti, ci invitano a essere come loro, sempre più felici e fiduciosi nel presente e nell’avvenire. Sono le immagini pilota del mito del benessere dietro di esse la società cerca di nascondere contraddizioni e violenze. Sono anche immagini premonitrici, segnali, avvisi. Chi può riconoscersi in queste immagini? Non i sei milioni di donne che in Italia lavorano nella produzione. Non i milioni di donne che restano a casa legate alla fatica domestica. Non queste ragazze di 14/15 anni che lavorano in un pastificio pugliese.”1
Queste parole, pronunciate da un’austera voce maschile, ci introducono al documentario Essere Donne (1965) di Cecilia Mangini. Il narratore porta alla nostra attenzione il paradosso che sta al centro della condizione contemporanea delle donne, e che Mangini sottolinea creando una sequenza frenetica di immagini trovate in cui gli stereotipi della femminilità sono giustapposti alla tragedia della guerra nucleare. In altre parole, la bellezza, e in particolare la reificazione del corpo femminile da parte di giornali e riviste, è qui associata all’annientamento di massa: questa scelta formale implica che entrambi, nonostante le loro differenze, siano un oltraggio alle società civili. L’affascinante prologo di Mangini presenta un’estetica simile a quella dei fotomontaggi di Ketty La Rocca e Lucia Marcucci, la cui dissonanza acuta tra immagini e parole è volta a riscrivere il pregiudizio contemporaneo sulle donne attraverso una buona dose di parodia e umorismo. La strategia sovversiva di Mangini riporta alla mente anche i fotomontaggi politici di Martha Rosler, come Body Beautiful, or Beauty Knows No Pain (Un corpo bellissimo, o la bellezza non conosce dolore, 1966-72) e House Beautiful: Bringing the War Back Home (Una casa bellissima: riportare la guerra in casa, 1967-72): il primo decostruisce le rappresentazioni delle donne nelle riviste di massa, mentre il secondo denuncia la Guerra del Vietnam. L’esercizio della documentarista Mangini: tagliare e incollare immagini trovate di corpi femminili mercificati per mostrare come, in un mondo dominato dal commercio, il ruolo delle donne sia stato oggetto di un discorso interdisciplinare controverso e incentrato sulla creazione di immagini attraverso media come fotografia e video.
La critica militante di Mangini si fa ancora più pungente se considerata insieme al resto del documentario, che presenta un quadro piuttosto desolante dei diritti (o della loro assenza) per chi lavora ed è donna. Il documentario ci porta da Milano alla Puglia e, attraverso le parole di donne anziane e appartenenti alla classe media, ci presenta il lato oscuro del “miracolo economico.” Infatti, attraverso il racconto delle difficili condizioni in cui vivevano le donne che lavoravano in fabbrica (il simbolo più riconoscibile del boom economico italiano degli anni ’60) e quelle che lavoravano le piante di tabacco, nonché attraverso il racconto dell’emigrazione di massa dal Sud al Nord, Essere donne offre una riflessione sulle lotte affrontate dalle donne in un paese che ancora ne relegava la maggior parte alla sfera domestica. Le donne intervistate da Mangini sono sovraccariche di lavoro, mal pagate e con poco o nessun sostegno, e devono anche scegliere se lavorare o prendersi cura dei propri figli. Una scelta non sempre facile da prendere e con la quale molte donne devono confrontarsi ancora oggi.

Cecilia Mangini, Essere donne, 1965. Still da film. Film, colore, sonoro, 29:00 min. Courtesy Archivi AAMOD – Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico
Verosimilmente, il crudo realismo di Mangini in Essere donne è in qualche modo fuori sincrono con le opere iperboliche e più autoriferite dei suoi contemporanei che lavoravano con l’arte e il linguaggio. Tuttavia, l’enfasi posta dal documentario sul lavoro, sia domestico che non, e sulla subordinazione delle donne all’interno della propria famiglia, è in linea con le questioni dibattute più ferocemente dal movimento femminista; nonostante la documentarista abbia evitato un’affiliazione così diretta, sostenendo che “il mio ‘femminismo’ non esiste.”2 Questa affermazione dovrebbe essere intesa non come un rifiuto netto del femminismo ma come una riaffermazione del suo impegno per l’uguaglianza e i diritti umani, al di là del genere.3 Essere donne ci presenta un quadro primitivo degli anni ’60 in Italia, visti da una prospettiva femminile di lotta e svantaggio che risponde (forse inconsapevolmente) a Silvia Federici e al suo appello di portare la lotta “fuori dalla cucina e dalla camera da letto, e nelle strade.”4 Sebbene Mangini non stia letteralmente scendendo in piazza, sta sollecitando comunque una risposta del pubblico attraverso il mezzo cinematografico. Si potrebbe prendere in prestito il famoso diktat di Marshall McLuhan “il mezzo è il messaggio” e sostenere che Mangini attribuisce al film un potere emancipatorio.
In tal senso, Essere donne introduce la nostra discussione, che affronta i modi in cui, attraverso fotografia e film, le donne hanno rivendicato la propria soggettività e creato spazi di azione non gerarchici. La rivendicazione di un soggetto femminile autonomo era una preoccupazione centrale per molte artiste che hanno iniziato a lavorare tra gli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70.5 Attraverso l’utilizzo di una vasta gamma di media, tra cui film, pittura e fotografia, hanno salvato il soggetto femminile dal suo nemico patriarcale. Il corpo, e in particolare il corpo dell’artista, è stato messo al centro del discorso, spesso come riaffermazione del famoso credo femminista: “il personale è politico.” Anche se molte delle opere prodotte in questo periodo sono modulate dall’autocoscienza—un approccio promosso attivamente dal movimento femminista—non tutte le artiste abbracciarono subito le pratiche e il pensiero del femminismo o, almeno, non lo fecero unendosi ai ranghi di gruppi femministi e organizzazioni femminili. Il pensiero femminista, tuttavia, ha informato la consapevolezza autocritica di artiste come Giosetta Fioroni, La Rocca e Nicole Gravier, incoraggiandole a presentare un’immagine radicale del femminile e in netto contrasto con gli stereotipi fabbricati dai mass media. Allo stesso modo di Mangini, hanno sottolineato la contraddizione al centro della condizione femminile contemporanea, ossia il fatto che le donne vengono considerate sia soggetti attivi sia oggetti subordinati. Le installazioni e i film di Laura Grisi e Marinella Pirelli erano probabilmente ancora più lontani dalle preoccupazioni femministe anche se, come vedremo, gli autoritratti filmici di Pirelli sono intrisi di domande sull’identità femminile e prendono come punto di partenza il vissuto dell’artista.

Cecilia Mangini, Essere donne, 1965. Still da film. Film, colore, sonoro, 29:00 min. Courtesy Archivi AAMOD – Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico
Quella di tracciare una correlazione diretta tra le pratiche di Fioroni, Gravier, Grisi, La Rocca e Pirelli e il movimento femminista italiano (in tutta la sua complessità) non è un’operazione lineare; anche se negli ultimi anni ha certamente ricevuto più attenzione, sia in ambito accademico sia curatoriale. La consapevolezza autocritica che ha sostenuto la pratica di molte artiste negli anni ’60 e ’70 era sì legata alla diffusione del pensiero femminista e agli inizi dell’attivismo femminista radicale, ma le artiste non si definivano necessariamente femministe. Denunciavano apertamente la discriminazione a cui tradizionalmente le donne erano state soggette e rivendicavano la legittimità del loro ruolo di artiste in una società che le aveva a lungo respinte, spesso partecipando a mostre tutte al femminile. Forse tale scelta è un’altra forma di ghettizzazione ma almeno garantiva loro una certa visibilità. L’aspetto più importante tuttavia era che consideravano l’arte come il luogo in cui si poteva biasimare la disparità tra i sessi, generando così un ripensamento radicale della vita e dell’identità di genere. Quindi la lotta per la liberazione portata avanti dal movimento femminista e le ambizioni visive delle artiste contemporanee apparivano perfettamente allineate. L’anello debole (se così si può definire) di questa operazione è stato lo scisma tra arte e critica. In molti casi ha portato a un’assenza di discussione. Penso in particolare a Carla Lonzi, il cui abbandono della critica d’arte nel 1970 e il suo generale disincanto verso l’arte—intesa come territorio di una struttura patriarcale profondamente problematica—l’ha portata a trascurare i legami immediati che si sarebbero potuti stabilire tra il femminismo e il lavoro delle artiste contemporanee. Anne Marie Sauzeau Boetti, un’altra importante voce critica dell’epoca, fu più solidale con gli sforzi delle sue colleghe e diede loro visibilità nei suoi testi. Successivamente Lea Vergine, con la sua mostra ormai leggendaria “L’altra metà dell’avanguardia” (1980), ha riportato in primo piano i lavori di artiste a lungo trascurate. Solo in tempi più recenti, e forse grazie a mostre femministe di riferimento internazionale come “WACK! Art and the Feminist Revolution” al Museum of Contemporary Art, Los Angeles (2007), “Elles@centrepompidou” a Parigi (2010) e “Radical Women: Latin American Art, 1960-1985” all’Hammer Museum, Los Angeles (2017), si è verificato uno sforzo più concertato per riallineare il lavoro delle artiste italiane attive negli anni ’70 e interessate al genere con il pensiero femminista contemporaneo.
Come abbiamo detto, l’arte femminista è una ricerca che spesso parte dal sé. In questo saggio, adotto una prospettiva allargata sul significato e le implicazioni del sé in relazione al lavoro di Fioroni, Gravier, Grisi, La Rocca e Pirelli. Insieme a una crescente consapevolezza di sé, le questioni legate alla rappresentazione, o alla sua mancanza, erano una preoccupazione condivisa. Il corpo ha acquisito un valore simbolico e, attraverso l’obiettivo della fotocamera e lo schermo video, è stata rivelata una femminilità altra. Capovolgere le immagini tradizionali della femminilità prodotte dallo sguardo maschile significava partecipare a un gioco di ruoli che ha spinto Fioroni, Gravier, Grisi, La Rocca e Pirelli ad assumere molteplici sembianze: soggetto e oggetto, attrice e operatrice, fotografa e modella.
CAPOVOLGERE LE IMMAGINI TRADIZIONALI DELLA FEMMINILITÀ PRODOTTE DALLO SGUARDO MASCHILE SIGNIFICAVA PARTECIPARE A UN GIOCO DI RUOLI CHE HA SPINTO FIORONI, GRAVIER, GRISI, LA ROCCA E PIRELLI AD ASSUMERE MOLTEPLICI SEMBIANZE: SOGGETTO E OGGETTO, ATTRICE E OPERATRICE, FOTOGRAFA E MODELLA.
Una dissolvenza

Giosetta Fioroni, La solitudine femminile, 1967. Still da film. Film. Courtesy dell’artista, e Archivio Giosetta Fioroni
Nel 1972 la pittrice Giosetta Fioroni dichiarava: “Ai nostri giorni, […] un proiettore di diapositive è un normale pezzo di equipaggiamento—e io lo uso proprio come userei qualsiasi altro strumento d’artista come la spatola, il colore a olio o i pennelli.”6 Il proiettore era un’interfaccia tra la tela dell’artista e le fotografie trovate da cui disegnava i suoi soggetti, ed era perciò parte integrante del suo processo di creazione delle immagini. A partire dal 1963, Fioroni ha rivolto la sua attenzione al “mare di fotografie che ci circondano quotidianamente” e ha cercato di filtrarle attraverso la pittura.7 Il suo lessico visivo, radicato nella cultura dell’immagine contemporanea, affrontava specificamente la figura della donna e la sua rappresentazione su giornali e riviste. Ragazze giovani e belle apparivano come “dissolvenze” sulle tele di Fioroni, che dava così alla pittura una connotazione fotografica. Questo aspetto veniva potenziato dal colore argento, il cui scopo era quello di creare un effetto di distanza ed evocare il ricordo di qualcosa già trascorso e allo stesso tempo ancora presente. L’essere donne veniva infatti messo in discussione attraverso le caratteristiche stereotipate della femminilità. Come ha ricordato in seguito l’artista: “Il criterio in base al quale sceglievo le foto era legato alla possibilità di fissare una volta alcune particolarità, la femminilità, l’eleganza, lo stupore, l’attesa. Oppure l’orrore dello stereotipo, la serialità imperante, il consumo, ecc.”8

Giosetta Fioroni, La ragazza della televisione, 1964. Courtesy dell’artista, e Archivio Giosetta Fioroni
Una sensazione di fissità unita alla resa pittorica piatta sottolineano l’unidimensionalità di queste donne trovate: per lo più estranee a Fioroni, esse fungono da sostitute dei simboli dello stereotipo femminile nelle sue diverse declinazioni. Attributi come occhi e bocche vengono messi in primo piano, qualificandosi come significanti di una femminilità che, in nome del suo essere seriale, prevale sull’individualità. Nei giornali e nelle riviste del tempo, infatti, le differenze venivano stemperate poiché si cercava di rappresentare la complessità dell’essere donne attraverso un concetto di femminilità estremamente semplificato. I dipinti di Fioroni rendono evidente questo pregiudizio. A quel tempo, la critica (soprattutto quella maschile) insisteva nell’interpretarli come istantanee: “la sua è una pittura dei sentimenti femminili.”9 Tale lettura superficiale, che poggiava sulla stranezza delle figure dipinte e che spesso, troppo facilmente, veniva equiparata a un’assenza di carattere, è stata esplicitamente sconfessata da Fioroni, la quale descriveva le sue opere come dissolvenze.
La dissolvenza coniugata all’apparizione e al fermo immagine rappresenta una strategia formale messa in atto da Fioroni per concepire la pittura in modo espanso: da luogo esclusivo della rappresentazione, la pittura diventa infatti un canale attraverso cui si uniscono media diversi: la fotografia come fonte, la pittura come superficie e il film come soggetto. La dissolvenza cinematografica è, infatti, centrale nella poetica di Fioroni: “Cercavo la leggerezza quasi di un’antica sequenza dei fratelli Lumière, del primo cinema, qualcosa che proprio trascorre, qualcosa che potrebbe essere immaginato come una serie di inquadrature (di cui io ne bloccavo una): qualcosa, che poteva suggerire in chi guardava un che di tremulo, di estremamente lieve: un’apparenza, una dissolvenza.”10 Fioroni traduce in termini pittorici questo effetto cinematografico, trasformando l’immagine in movimento in un’immagine fissa. Tale processo arriva a compimento nel cortometraggio Solitudine Femminile, un’opera poco conosciuta realizzata dall’artista nel 1967, che deriva chiaramente dai suoi ritratti di donne. Lì si vede la poetessa Rosanna Tofanelli mentre si trucca, un’azione tipicamente femminile. Allo stesso tempo, Tofanelli è ritratta mentre dà voce ai suoi dilemmi interiori. Il contrasto tra l’abbellimento e la ricerca dell’identità non potrebbe essere più netto. Fondamentalmente, nell’arco di pochi minuti, Fioroni mostra quanto le donne siano combattute tra l’assecondare la società, e il soddisfare i loro desideri più intimi; due sfaccettature difficili da riconciliare, come ci racconta Fioroni.
Attrice-operatrice

Marinella Pirelli, Doppio autoritratto, 1973-74. Still da film. Film, 16mm, trasferito in digitale, colore, sonoro, 13:00 min. © The Estate of the Artist. Courtesy di Richard Saltoun Gallery, Londra
“In questo film ho cinematografato me stessa agisco contemporaneamente come operatore e come attrice. Nelle sequenze in movimento mi sposto con la cinepresa in mano rivolta verso di me. Nessuno controllava l’immagine attraverso la cinepresa durante la ripresa. La cinepresa era il mio partner: ognuno di voi è ora il mio partner.”11 Tale affermazione programmatica e intima allo stesso tempo ci introduce al film Doppio autoritratto (1973-74) di Marinella Pirelli, in cui l’artista interpreta molteplici ruoli, come soggetto e oggetto, attrice e operatrice; sia davanti alla telecamera sia dietro.
Il doppio autoritratto di Pirelli è un commovente atto di auto-rivelazione. In un modo non troppo dissimile da Solitudine Femminile di Fioroni, ci confrontiamo qui con la complessità della soggettività femminile nella sua forma più cruda. Dapprima a occhi chiusi, Pirelli inizia a rivelarsi a noi. Fissa la telecamera e ci invita a interagire con lei dall’altra parte dello schermo. Segue un cambio d’inquadratura netto e perdiamo di vista il volto di Pirelli. Ora i primi piani del corpo dell’artista assediano in maniera caotica la telecamera. L’artista è ancora presente, ma si intravedono solo i suoi capelli, il collo e il cuoio capelluto. Alla fine del film ritroviamo il volto di Pirelli, che acquista una qualità diversa alla luce della rappresentazione anticonvenzionale che abbiamo appena osservato. Una malinconia offusca l’espressione finale di Pirelli, mentre saluta noi e la telecamera. Infatti questo è stato l’ultimo film dell’artista. Al tempo, aveva perso da poco il marito, e ha utilizzato la telecamera come luogo sia di lutto sia di scoperta di sé. “QUANDO MI VIDI NON C’ERO,” le parole dell’artista concettuale Vincenzo Agnetti—a cui Pirelli dedica l’autoritratto—raccontano l’esperienza di ritrovarsi nell’ombra lunga della perdita.

Marinella Pirelli, Doppio autoritratto, 1973-74. Still da film. Film, 16mm, trasferito in digitale, colore, sonoro, 13:00 min. © The Estate of the Artist. Courtesy di Richard Saltoun Gallery, Londra
Nonostante siano entrambi autoritratti, il contrasto di temperatura tra Doppio autoritratto e Narciso, un film realizzato da Pirelli nel 1966, non potrebbe essere più netto. Narciso, come suggerisce il titolo, è informato da un’indulgenza narcisistica. Corpo e linguaggio diventano una cosa sola, mentre Pirelli ci conduce attraverso una sceneggiatura ribelle simile a un flusso di coscienza. Si delizia della vita e di se stessa. Nel frattempo la telecamera che tiene in mano ci mostra parti diverse del suo corpo. Mentre la voce di Pirelli è volutamente sensuale, i pensieri che esprime sottolineano la tensione esistenziale di cui fa esperienza in quanto donna divisa tra la casa e lo studio. L’artista esprime la sua verità trasformando il linguaggio in un’arma pronta a colpire e che la telecamera è lì per registrare. L’immediatezza del medium, così come la sua capacità di unire suono e immagine in un legame indissolubile, guidano Pirelli in questo esercizio soggettivo che riflette sull’identità accompagnandoci al suo interno. Narciso termina con una nota sobria in cui l’artista afferma che “il silenzio sta calando.” A differenza di Doppio autoritratto non vediamo mai il viso di Pirelli ma solo il suo corpo. In entrambi i casi, l’artista considera la telecamera come uno strumento speculare che l’aiuta nella ricerca e nella riaffermazione delle sue identità mutevoli. In quanto estensione protesica dell’artista, la telecamera diventa luogo di conoscenza e di emancipazione, per riaffermare l’Io di Pirelli come donna e artista.
Guardare ed essere guardata

Laura Grisi, Distillations – 3 Months of Looking, 1970. Artestudio, Macerata, cm 22,5×24. Courtesy di Laura Grisi Estate, e P420, Bologna. Foto di Carlo Favero
“Guardo la varietà delle piante – Mindanao, isole Sulu”
“Guardo come si muovono le piante – Maupiti, isole Sottovento”
“Guardo il fuoco – Deserto del Ciad”
“Guardo come si muove l’oceano – Rangiroa”
“Guardo l’orizzonte – Deserto del Niger”
“Guardo un flusso di lava – vulcano Tanna, Nuove Ebridi”
“Guardo il sole – Manihi, atolli Tuamotu”
“Guardo l’acqua – Raiatea, isole Sottovento”12
Nel 1970 Laura Grisi viaggia per tre mesi e, in questo periodo, guarda e guarda attentamente l’ambiente circostante. I quattro elementi (terra, acqua, aria e fuoco) sono centrali nell’osservazione che Grisi fa della natura. Per ogni luogo l’artista genera una nuova serie di dati, che registrano attentamente le sue osservazioni, così come le sue risposte fisiche ed emotive al paesaggio che cambia. Verosimilmente il progetto di Grisi declina “il personale è politico” in il personale è la natura. La sua osservazione delle diverse condizioni ambientali era allo stesso tempo liberatoria e guidata da un insieme di regole create dall’artista stessa. Queste avevano lo scopo di organizzare e classificare le sue percezioni visive, conferendo all’intero progetto una base concettuale-scientifica. Grisi ha raccolto desideri e appunti soggettivi attraverso esercizi ed esperimenti, e li ha poi trasformati in dati oggettivi. Tuttavia l’Io rimaneva centrale per le osservazioni dell’artista, che aveva messo se stessa alla base del progetto.

Laura Grisi, Distillations – 3 Months of Looking, 1970. Artestudio, Macerata, cm 22,5×24. Courtesy di Laura Grisi Estate, e P420, Bologna. Foto di Carlo Favero
I risultati dei tre mesi di ricerca di Grisi sono stati raccolti in un libro fotografico intitolato Distillations – 3 Months of Looking (Distillazioni – 3 mesi di osservazioni, 1970), la cui parte testuale è accompagnata da immagini in bianco e nero. Per Grisi, la distillazione era “[una] procedura: un estratto di esperienze visive, mentali, spirituali” e un concetto che ha continuato a informare molti lavori.13 La prima tra le Distillations è stata un’azione che ha visto Grisi contare i granelli di sabbia nel deserto: The Measuring of Time (1969) è stata un’impresa incommensurabile, data l’impossibilità di sapere mai veramente quanta sabbia ci sia nel deserto. Girato in un’unica sequenza a spirale, il film inizia con un primo piano sulle mani di Grisi — enfatizzando così il suo gesto ripetitivo — da cui si allontana gradualmente per rivelare l’artista che esegue l’azione.

Laura Grisi, Distillations – 3 Months of Looking, 1970. Artestudio, Macerata, cm 22,5×24. Courtesy di Laura Grisi Estate, e P420, Bologna. Foto di Carlo Favero
Anche se il principale oggetto del contendere in The Measuring of Time è la ripetizione durante un certo arco di tempo, il soggetto che mi interessa qui è Grisi. A differenza delle sue contemporanee, l’artista non hai mai guardato al proprio corpo come luogo di auto-riflessione. L’indagine sugli elementi naturali, così come la loro replica nello spazio espositivo, è rimasta una delle principali preoccupazioni di Grisi. Dare voce alle lotte delle donne non era un imperativo che l’artista perseguiva attivamente, rendendo l’opportunità di inserire la sua ricerca nel contesto di questo saggio piuttosto discutibile. Tuttavia, direi che la presenza di Grisi in molte delle sue opere è più significativa di quanto si sarebbe indotti a supporre. Innanzitutto Grisi ha assunto molteplici sembianze: soggetto e oggetto, regista e attrice, fotografa e modella. In altre parole, Grisi si è inserita nel lavoro e così facendo ha riaffermato il suo ruolo di creatrice e osservatrice. Anche quando si trattava di natura, il suo “Io” ha mantenuto il controllo, come si vede in Distillations – 3 Months of Looking. Quell’“Io” che Grisi ha costantemente perseguito non è mai stato strettamente legato all’autorappresentazione, anzi veniva riaffermato dal medium scelto, cioè la fotografia. Fin dall’inizio della sua carriera, Grisi ha usato la macchina fotografica come un dispositivo di mediazione per potenziare la sua visione del mondo. Negli anni ’60, come Fioroni, ha continuato a perseguire un modello ibrido di pittura, che ha descritto come “un mondo visto attraverso l’obiettivo di una macchina fotografica.”14 In questa serie di lavori, la tela ospita una lente ipotetica, per lo più sfocata, che altera la percezione della realtà. Come Pirelli, anche Grisi ha continuato a sperimentare con il film e l’installazione. Ma l’obiettivo della fotocamera, sia come strumento documentaristico sia come metafora dello sguardo, è rimasto un tratto fisso. Probabilmente l’obiettivo della fotocamera era l’alter ego di Grisi, che le permetteva di guardare ed essere guardata senza necessariamente concentrarsi su se stessa.
Io, donna

Ketty La Rocca, La Gabbia, 1964-65. Collage, cm 44,5 x 29,5. Courtesy di The Ketty La Rocca Estate (gestito dal figlio dell’artista, Michelangelo Vasta)
I resoconti dell’arte e del femminismo italiani degli anni ’60 e ’70 includono il lavoro di Fioroni, Grisi e Pirelli solo sporadicamente. A differenza di Gravier e La Rocca, queste tre artiste non consideravano le loro opere come esplicite armi di protesta e contestazione sociale. Il loro femminismo, se così si può descrivere, era sottile e spesso mascherato da strati di sperimentazione. Anche quando si trattava di pittura—vedi i ritratti di donne di Fioroni—la macchina fotografica come strumento ottico e metaforico rispondeva alla necessità precisa e diffusa di consapevolezza e autonomia. La macchina da presa, così come quella fotografica, era fondamentalmente un veicolo per interpretare l’implicito, oltre che l’esplicito. A questo proposito, la ricerca di Fioroni, Grisi e Pirelli è strettamente allineata agli esperimenti di Gravier e La Rocca con la fotografia e il fotomontaggio. Nelle loro rispettive pratiche, Gravier e La Rocca si sono mosse consapevolmente all’interno di una cultura maschilista con l’obiettivo di contrastare gli stereotipi femminili. Come vedremo, attraverso la giustapposizione di immagini e parole sono riuscite a estrarre nuovi significati da quelli esistenti.
La Rocca ha contestato l’alfabeto in quanto deposito di una cultura dominata dagli uomini. Come le sue contemporanee Mirella Bentivoglio e Tomaso Binga, La Rocca ha intrapreso un esame sistematico del linguaggio volto a mettere in primo piano una nuova dialettica femminista. Il corpo, per La Rocca, ha assunto una valenza simbolica in questo tentativo di riposizionare il soggetto femminile. Nei suoi fotomontaggi, ha sabotato il modo con cui i mezzi di comunicazione di massa insistono a ritrarre le donne come oggetti di desiderio e fantasia. Ne La Gabbia (1964-65), per esempio, La Rocca ha dato voce alla doppia oppressione a cui le donne erano sottoposte, intrappolate dalle faccende domestiche (esemplificate dal maglione appeso a uno stendibiancheria) e soggette alla pressione della società per essere giovani e belle (simboleggiata dai prodotti per il trucco). L’irriverenza degli abbinamenti verbo-visivi di La Rocca li ha inscritti in una tradizione dadaista che si rifaceva ai fotomontaggi politici di Hannah Höch. Mossa da un simile desiderio di denunciare i mali della società, La Rocca ha respinto attivamente l’immagine femminile come unica fonte di bellezza, giovinezza, e purezza e l’ha riformulata riconoscendo l’essere donne come un terreno di contesa.

Ketty La Rocca, La Gabbia, 1964-65. Collage, cm 44,5 x 29,5. Courtesy di The Ketty La Rocca Estate (gestito dal figlio dell’artista, Michelangelo Vasta)
Emergendo da secoli di oppressione, le donne di La Rocca si sono espresse contro la cultura patriarcale e capitalista che aveva costantemente coercito i loro corpi e cancellato le loro voci. L’artista si è appropriata dei detriti della fotografia commerciale, e ha rivendicato il diritto delle donne di parlare apertamente; una scelta che ricorda l’articolo di Germaine Greer dal titolo eloquente “Il nudo non è in vendita” pubblicato sul primo numero della rivista femminista “Effe” nel 1973. Greer invitava le donne a salvare la rappresentazione del nudo dalla mercificazione dilagante e affermava come: “Non è l’esposizione del corpo femminile vero che ci umilia; ci offende la sostituzione di un corpo fabbricato, mascherato e incompleto […].” A cui aggiungeva la nota amara: “È stata la fotografia a partorire questo mostro.”15 È proprio questa qualità mostruosa, che Greer attribuisce alla fotografia, che ha spinto La Rocca verso la sua ricerca sull’immaginario appropriato. Recuperando l’agentività delle donne sui loro corpi, La Rocca ha contemporaneamente recuperato l’agentività della fotografia dalla fossa della subordinazione in cui la cultura della merce l’aveva gettata.

Nicole Gravier, Non è Possibile, 1976 -1980. Collage su C- print. 30×40 cm. Courtesy dell’artista e ERMES ERMES
Nella serie “Mythes et Clichés” (1976-1980) anche Gravier si proponeva di sabotare gli stereotipi femminili. Nello specifico, ha esposto i cliché dei fotoromanzi: storie in stile fumetto rivolte a giovani donne e casalinghe. Gravier ha fatto una parodia dello stile sdolcinato e delle convenzioni narrative del fotoromanzo presentandosi come l’eroina di una di queste storie. Ha rivelato così come il fotoromanzo fosse caratterizzato da tropi stereotipati immaginati dagli editori maschi per le loro lettrici femminili. Accentuando le pose languide e rielaborando banalità ritrite, Gravier ha minato la natura sognatrice di questi melodrammi altamente coreografati.
In Non è possibile, un lavoro della serie “Mythes et Clichés,” il viso sgomento dell’artista ci dice che il contenuto della lettera che tiene nella mano destra è scioccante. Il gesto esagerato è esaltato dal fumetto che recita: “Stenta ancora a credere a quello che ha letto. Le sue mani tremano mentre stringe quel foglio di carta.”

Nicole Gravier, Roberto (Moro), 1976 -1980. Collage su C- print. 30×40 cm. Courtesy dell’artista e ERMES ERMES
La prevedibilità emotiva di questa e di altre immagini della serie auto-mitizzata di Gravier è complicata dall’inserimento di elementi che alludono alla politica e alla società contemporanee. Per esempio, in Roberto (Moro) si vede Gravier sdraiata su una coperta rosa e circondata da riviste. Sogna ad occhi aperti: “Roberto… Roberto, amore mio” e noi ci resta che chiederci, chi è Roberto? Suo marito, il suo amante o un personaggio di un fotoromanzo? La risposta sta al di là delle nostre aspettative, e l’artista ne è affascinata. Non appena scorgiamo la rivista politica “Panorama” che giace tra altri fotoromanzi scadenti, avviene un cambiamento radicale di tono. La storia di copertina sul politico democristiano Aldo Moro, rapito e ucciso dalle Brigate Rosse nel 1978, incupisce l’atmosfera della messa in scena. Inserendo “Aldo” in un’immagine che presumibilmente riguarda “Roberto,” Gravier dà nuovo significato alla sua verità fittizia. Infatti, simboli nascosti come “Aldo” fanno acquistare una qualità sovversiva alle scene cliché dell’artista, che mina la loro dolce stupidità. Nel ruolo di attrice, narratrice, scenografa e fotografa, Gravier dà una svolta femminista a un formato collaudato, quello del fotoromanzo, che per molto tempo aveva avuto tanti scopi fuorché quello emancipatorio. Come Fioroni, Grisi, La Rocca, Mangini e Pirelli, Gravier prende il controllo della storia e sposta il punto di vista lontano dallo sguardo univoco maschile e vicino al soggetto femminile.
In vari modi e forme, tutte le donne discusse qui si sono cimentate nella narrazione. Attraverso la rappresentazione e la rappresentazione di sé, il gioco di ruolo e l’osservazione, la pittura e la fotografia, il film e il fotomontaggio, hanno posto una domanda semplice ma inedita e perspicace per il tempo e che ancora oggi rimane aperta: di chi è questa storia?
—Traduzione dall’inglese di Bianca Stoppani
Flavia Frigeri, Storica dell’Arte e Chanel Curator for the Collection, National Portrait Gallery, Londra
Flavia Frigeri è storica dell’arte e ‘Chanel Curator for the Collection’ presso la National Portrait Gallery di Londra. Dal 2016 al 2020, è stata Teaching Fellow presso il Dipartimento di Storia dell’Arte UCL, Londra, e continua a far parte del corpo insegnanti del MA in Arte Contemporanea del Sotheby’s Institute. In precedenza è stata Curatrice per l’Arte internazionale, Tate Modern, Londra, dove ha co-curato The World Goes Pop (2015) ed è stata responsabile di Henri Matisse: The Cut-Outs (2014), tra altre mostre.
1 Cecilia Mangini, Essere donne, 1965, film
2 Cecilia Mangini quoted in Allison Grimaldi Donahue, Finding the Real in the Magic: What Cecilia Mangini Gave Us, «Another Gaze/Another Screen», rivista online, ultimo accesso marzo 2021
3 Cecilia Mangini ha approfondito questo concetto in un’intervista a Martina Troncano: “…la cosa più importante è l’égalité, cioè l’uguaglianza di tutti gli esseri umani, uomini, donne, omosessuali, lesbiche, transgender.” Intervista citata in Ibid.
4 Silvia Federici, “Wages Against Housework” (1974) ristampato in The Unexpected Subject: 1978 Art and Feminism in Italy, a cura di Marco Scotini e Raffaella Perna (Milano: Flash Art, 2019), p. 39
5 Il “soggetto femminile” è stato oggetto della mostra recente “Il Soggetto Imprevisto. 1978 Arte e femminismo in Italia,” curata da Marco Scotini e Raffaella Perna presso FM Frigoriferi Milanesi, Milano. La mostra ha analizzato la relazione tra l’arte e il movimento femminista portando alla luce nodi critici e tangenze precedentemente inesplorate.
6 Giosetta Fioroni citata in Giosetta Fioroni, a cura di Germano Celant, Milano: Skira 2009, p. 112
7 Ibid.
8 Ibid., p. 139
9 Goffredo Parise, “Roma pop art” (1965) ristampato in Giosetta Fioroni, p. 127
10 Fioroni citata in Giosetta Fioroni, p. 133
11 Marinella Pirelli, Doppio autoritratto, 1973-74, film
12 Laura Grisi, 3 Months of Looking, Macerata: Edizione Artestudio 1970
13 Laura Grisi, Laura Grisi, New York: Rizzoli International 1990, p. 31
14 Ibid, p. 17
15 Germaine Greer, citata in Raffaella Perna, “Notes on Photography, Art and Feminism in Italy” in M/A\G/M\A Body and Words in Italian and Lithuanian Women’s Art from 1965 to the Present, a cura di Benedetta Carpi de Resmini e Laima Kreivytė, Macerata: Quodilibet 2018, p. 203
Di Flavia Frigeri
Flavia Frigeri mappa le metodologie sovversive attraverso cui registe e artiste come Cecilia Mangini, Giosetta Fioroni, Marinella Pirelli, Laura Grisi, Ketty La Rocca e Nicole Gravier hanno impiegato i media fotografici e video per disarticolare le rappresentazioni patriarcali della femminilità.

Cecilia Mangini, Essere donne, 1965. Still da film. Film, colore, sonoro, 29:00 min. Courtesy Archivi AAMOD – Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico
Ci guardano dalle riviste e dai manifesti, ci invitano a essere come loro, sempre più felici e fiduciosi nel presente e nell’avvenire. Sono le immagini pilota del mito del benessere dietro di esse la società cerca di nascondere contraddizioni e violenze. Sono anche immagini premonitrici, segnali, avvisi. Chi può riconoscersi in queste immagini? Non i sei milioni di donne che in Italia lavorano nella produzione. Non i milioni di donne che restano a casa legate alla fatica domestica. Non queste ragazze di 14/15 anni che lavorano in un pastificio pugliese.”1
Queste parole, pronunciate da un’austera voce maschile, ci introducono al documentario Essere Donne (1965) di Cecilia Mangini. Il narratore porta alla nostra attenzione il paradosso che sta al centro della condizione contemporanea delle donne, e che Mangini sottolinea creando una sequenza frenetica di immagini trovate in cui gli stereotipi della femminilità sono giustapposti alla tragedia della guerra nucleare. In altre parole, la bellezza, e in particolare la reificazione del corpo femminile da parte di giornali e riviste, è qui associata all’annientamento di massa: questa scelta formale implica che entrambi, nonostante le loro differenze, siano un oltraggio alle società civili. L’affascinante prologo di Mangini presenta un’estetica simile a quella dei fotomontaggi di Ketty La Rocca e Lucia Marcucci, la cui dissonanza acuta tra immagini e parole è volta a riscrivere il pregiudizio contemporaneo sulle donne attraverso una buona dose di parodia e umorismo. La strategia sovversiva di Mangini riporta alla mente anche i fotomontaggi politici di Martha Rosler, come Body Beautiful, or Beauty Knows No Pain (Un corpo bellissimo, o la bellezza non conosce dolore, 1966-72) e House Beautiful: Bringing the War Back Home (Una casa bellissima: riportare la guerra in casa, 1967-72): il primo decostruisce le rappresentazioni delle donne nelle riviste di massa, mentre il secondo denuncia la Guerra del Vietnam. L’esercizio della documentarista Mangini: tagliare e incollare immagini trovate di corpi femminili mercificati per mostrare come, in un mondo dominato dal commercio, il ruolo delle donne sia stato oggetto di un discorso interdisciplinare controverso e incentrato sulla creazione di immagini attraverso media come fotografia e video.
La critica militante di Mangini si fa ancora più pungente se considerata insieme al resto del documentario, che presenta un quadro piuttosto desolante dei diritti (o della loro assenza) per chi lavora ed è donna. Il documentario ci porta da Milano alla Puglia e, attraverso le parole di donne anziane e appartenenti alla classe media, ci presenta il lato oscuro del “miracolo economico.” Infatti, attraverso il racconto delle difficili condizioni in cui vivevano le donne che lavoravano in fabbrica (il simbolo più riconoscibile del boom economico italiano degli anni ’60) e quelle che lavoravano le piante di tabacco, nonché attraverso il racconto dell’emigrazione di massa dal Sud al Nord, Essere donne offre una riflessione sulle lotte affrontate dalle donne in un paese che ancora ne relegava la maggior parte alla sfera domestica. Le donne intervistate da Mangini sono sovraccariche di lavoro, mal pagate e con poco o nessun sostegno, e devono anche scegliere se lavorare o prendersi cura dei propri figli. Una scelta non sempre facile da prendere e con la quale molte donne devono confrontarsi ancora oggi.

Cecilia Mangini, Essere donne, 1965. Still da film. Film, colore, sonoro, 29:00 min. Courtesy Archivi AAMOD – Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico
Verosimilmente, il crudo realismo di Mangini in Essere donne è in qualche modo fuori sincrono con le opere iperboliche e più autoriferite dei suoi contemporanei che lavoravano con l’arte e il linguaggio. Tuttavia, l’enfasi posta dal documentario sul lavoro, sia domestico che non, e sulla subordinazione delle donne all’interno della propria famiglia, è in linea con le questioni dibattute più ferocemente dal movimento femminista; nonostante la documentarista abbia evitato un’affiliazione così diretta, sostenendo che “il mio ‘femminismo’ non esiste.”2 Questa affermazione dovrebbe essere intesa non come un rifiuto netto del femminismo ma come una riaffermazione del suo impegno per l’uguaglianza e i diritti umani, al di là del genere.3 Essere donne ci presenta un quadro primitivo degli anni ’60 in Italia, visti da una prospettiva femminile di lotta e svantaggio che risponde (forse inconsapevolmente) a Silvia Federici e al suo appello di portare la lotta “fuori dalla cucina e dalla camera da letto, e nelle strade.”4 Sebbene Mangini non stia letteralmente scendendo in piazza, sta sollecitando comunque una risposta del pubblico attraverso il mezzo cinematografico. Si potrebbe prendere in prestito il famoso diktat di Marshall McLuhan “il mezzo è il messaggio” e sostenere che Mangini attribuisce al film un potere emancipatorio.
In tal senso, Essere donne introduce la nostra discussione, che affronta i modi in cui, attraverso fotografia e film, le donne hanno rivendicato la propria soggettività e creato spazi di azione non gerarchici. La rivendicazione di un soggetto femminile autonomo era una preoccupazione centrale per molte artiste che hanno iniziato a lavorare tra gli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70.5 Attraverso l’utilizzo di una vasta gamma di media, tra cui film, pittura e fotografia, hanno salvato il soggetto femminile dal suo nemico patriarcale. Il corpo, e in particolare il corpo dell’artista, è stato messo al centro del discorso, spesso come riaffermazione del famoso credo femminista: “il personale è politico.” Anche se molte delle opere prodotte in questo periodo sono modulate dall’autocoscienza—un approccio promosso attivamente dal movimento femminista—non tutte le artiste abbracciarono subito le pratiche e il pensiero del femminismo o, almeno, non lo fecero unendosi ai ranghi di gruppi femministi e organizzazioni femminili. Il pensiero femminista, tuttavia, ha informato la consapevolezza autocritica di artiste come Giosetta Fioroni, La Rocca e Nicole Gravier, incoraggiandole a presentare un’immagine radicale del femminile e in netto contrasto con gli stereotipi fabbricati dai mass media. Allo stesso modo di Mangini, hanno sottolineato la contraddizione al centro della condizione femminile contemporanea, ossia il fatto che le donne vengono considerate sia soggetti attivi sia oggetti subordinati. Le installazioni e i film di Laura Grisi e Marinella Pirelli erano probabilmente ancora più lontani dalle preoccupazioni femministe anche se, come vedremo, gli autoritratti filmici di Pirelli sono intrisi di domande sull’identità femminile e prendono come punto di partenza il vissuto dell’artista.

Cecilia Mangini, Essere donne, 1965. Still da film. Film, colore, sonoro, 29:00 min. Courtesy Archivi AAMOD – Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico
Quella di tracciare una correlazione diretta tra le pratiche di Fioroni, Gravier, Grisi, La Rocca e Pirelli e il movimento femminista italiano (in tutta la sua complessità) non è un’operazione lineare; anche se negli ultimi anni ha certamente ricevuto più attenzione, sia in ambito accademico sia curatoriale. La consapevolezza autocritica che ha sostenuto la pratica di molte artiste negli anni ’60 e ’70 era sì legata alla diffusione del pensiero femminista e agli inizi dell’attivismo femminista radicale, ma le artiste non si definivano necessariamente femministe. Denunciavano apertamente la discriminazione a cui tradizionalmente le donne erano state soggette e rivendicavano la legittimità del loro ruolo di artiste in una società che le aveva a lungo respinte, spesso partecipando a mostre tutte al femminile. Forse tale scelta è un’altra forma di ghettizzazione ma almeno garantiva loro una certa visibilità. L’aspetto più importante tuttavia era che consideravano l’arte come il luogo in cui si poteva biasimare la disparità tra i sessi, generando così un ripensamento radicale della vita e dell’identità di genere. Quindi la lotta per la liberazione portata avanti dal movimento femminista e le ambizioni visive delle artiste contemporanee apparivano perfettamente allineate. L’anello debole (se così si può definire) di questa operazione è stato lo scisma tra arte e critica. In molti casi ha portato a un’assenza di discussione. Penso in particolare a Carla Lonzi, il cui abbandono della critica d’arte nel 1970 e il suo generale disincanto verso l’arte—intesa come territorio di una struttura patriarcale profondamente problematica—l’ha portata a trascurare i legami immediati che si sarebbero potuti stabilire tra il femminismo e il lavoro delle artiste contemporanee. Anne Marie Sauzeau Boetti, un’altra importante voce critica dell’epoca, fu più solidale con gli sforzi delle sue colleghe e diede loro visibilità nei suoi testi. Successivamente Lea Vergine, con la sua mostra ormai leggendaria “L’altra metà dell’avanguardia” (1980), ha riportato in primo piano i lavori di artiste a lungo trascurate. Solo in tempi più recenti, e forse grazie a mostre femministe di riferimento internazionale come “WACK! Art and the Feminist Revolution” al Museum of Contemporary Art, Los Angeles (2007), “Elles@centrepompidou” a Parigi (2010) e “Radical Women: Latin American Art, 1960-1985” all’Hammer Museum, Los Angeles (2017), si è verificato uno sforzo più concertato per riallineare il lavoro delle artiste italiane attive negli anni ’70 e interessate al genere con il pensiero femminista contemporaneo.
Come abbiamo detto, l’arte femminista è una ricerca che spesso parte dal sé. In questo saggio, adotto una prospettiva allargata sul significato e le implicazioni del sé in relazione al lavoro di Fioroni, Gravier, Grisi, La Rocca e Pirelli. Insieme a una crescente consapevolezza di sé, le questioni legate alla rappresentazione, o alla sua mancanza, erano una preoccupazione condivisa. Il corpo ha acquisito un valore simbolico e, attraverso l’obiettivo della fotocamera e lo schermo video, è stata rivelata una femminilità altra. Capovolgere le immagini tradizionali della femminilità prodotte dallo sguardo maschile significava partecipare a un gioco di ruoli che ha spinto Fioroni, Gravier, Grisi, La Rocca e Pirelli ad assumere molteplici sembianze: soggetto e oggetto, attrice e operatrice, fotografa e modella.
CAPOVOLGERE LE IMMAGINI TRADIZIONALI DELLA FEMMINILITÀ PRODOTTE DALLO SGUARDO MASCHILE SIGNIFICAVA PARTECIPARE A UN GIOCO DI RUOLI CHE HA SPINTO FIORONI, GRAVIER, GRISI, LA ROCCA E PIRELLI AD ASSUMERE MOLTEPLICI SEMBIANZE: SOGGETTO E OGGETTO, ATTRICE E OPERATRICE, FOTOGRAFA E MODELLA.
Una dissolvenza

Giosetta Fioroni, La solitudine femminile, 1967. Still da film. Film. Courtesy dell’artista, e Archivio Giosetta Fioroni
Nel 1972 la pittrice Giosetta Fioroni dichiarava: “Ai nostri giorni, […] un proiettore di diapositive è un normale pezzo di equipaggiamento—e io lo uso proprio come userei qualsiasi altro strumento d’artista come la spatola, il colore a olio o i pennelli.”6 Il proiettore era un’interfaccia tra la tela dell’artista e le fotografie trovate da cui disegnava i suoi soggetti, ed era perciò parte integrante del suo processo di creazione delle immagini. A partire dal 1963, Fioroni ha rivolto la sua attenzione al “mare di fotografie che ci circondano quotidianamente” e ha cercato di filtrarle attraverso la pittura.7 Il suo lessico visivo, radicato nella cultura dell’immagine contemporanea, affrontava specificamente la figura della donna e la sua rappresentazione su giornali e riviste. Ragazze giovani e belle apparivano come “dissolvenze” sulle tele di Fioroni, che dava così alla pittura una connotazione fotografica. Questo aspetto veniva potenziato dal colore argento, il cui scopo era quello di creare un effetto di distanza ed evocare il ricordo di qualcosa già trascorso e allo stesso tempo ancora presente. L’essere donne veniva infatti messo in discussione attraverso le caratteristiche stereotipate della femminilità. Come ha ricordato in seguito l’artista: “Il criterio in base al quale sceglievo le foto era legato alla possibilità di fissare una volta alcune particolarità, la femminilità, l’eleganza, lo stupore, l’attesa. Oppure l’orrore dello stereotipo, la serialità imperante, il consumo, ecc.”8

Giosetta Fioroni, La ragazza della televisione, 1964. Courtesy dell’artista, e Archivio Giosetta Fioroni
Una sensazione di fissità unita alla resa pittorica piatta sottolineano l’unidimensionalità di queste donne trovate: per lo più estranee a Fioroni, esse fungono da sostitute dei simboli dello stereotipo femminile nelle sue diverse declinazioni. Attributi come occhi e bocche vengono messi in primo piano, qualificandosi come significanti di una femminilità che, in nome del suo essere seriale, prevale sull’individualità. Nei giornali e nelle riviste del tempo, infatti, le differenze venivano stemperate poiché si cercava di rappresentare la complessità dell’essere donne attraverso un concetto di femminilità estremamente semplificato. I dipinti di Fioroni rendono evidente questo pregiudizio. A quel tempo, la critica (soprattutto quella maschile) insisteva nell’interpretarli come istantanee: “la sua è una pittura dei sentimenti femminili.”9 Tale lettura superficiale, che poggiava sulla stranezza delle figure dipinte e che spesso, troppo facilmente, veniva equiparata a un’assenza di carattere, è stata esplicitamente sconfessata da Fioroni, la quale descriveva le sue opere come dissolvenze.
La dissolvenza coniugata all’apparizione e al fermo immagine rappresenta una strategia formale messa in atto da Fioroni per concepire la pittura in modo espanso: da luogo esclusivo della rappresentazione, la pittura diventa infatti un canale attraverso cui si uniscono media diversi: la fotografia come fonte, la pittura come superficie e il film come soggetto. La dissolvenza cinematografica è, infatti, centrale nella poetica di Fioroni: “Cercavo la leggerezza quasi di un’antica sequenza dei fratelli Lumière, del primo cinema, qualcosa che proprio trascorre, qualcosa che potrebbe essere immaginato come una serie di inquadrature (di cui io ne bloccavo una): qualcosa, che poteva suggerire in chi guardava un che di tremulo, di estremamente lieve: un’apparenza, una dissolvenza.”10 Fioroni traduce in termini pittorici questo effetto cinematografico, trasformando l’immagine in movimento in un’immagine fissa. Tale processo arriva a compimento nel cortometraggio Solitudine Femminile, un’opera poco conosciuta realizzata dall’artista nel 1967, che deriva chiaramente dai suoi ritratti di donne. Lì si vede la poetessa Rosanna Tofanelli mentre si trucca, un’azione tipicamente femminile. Allo stesso tempo, Tofanelli è ritratta mentre dà voce ai suoi dilemmi interiori. Il contrasto tra l’abbellimento e la ricerca dell’identità non potrebbe essere più netto. Fondamentalmente, nell’arco di pochi minuti, Fioroni mostra quanto le donne siano combattute tra l’assecondare la società, e il soddisfare i loro desideri più intimi; due sfaccettature difficili da riconciliare, come ci racconta Fioroni.
Attrice-operatrice

Marinella Pirelli, Doppio autoritratto, 1973-74. Still da film. Film, 16mm, trasferito in digitale, colore, sonoro, 13:00 min. © The Estate of the Artist. Courtesy di Richard Saltoun Gallery, Londra
“In questo film ho cinematografato me stessa agisco contemporaneamente come operatore e come attrice. Nelle sequenze in movimento mi sposto con la cinepresa in mano rivolta verso di me. Nessuno controllava l’immagine attraverso la cinepresa durante la ripresa. La cinepresa era il mio partner: ognuno di voi è ora il mio partner.”11 Tale affermazione programmatica e intima allo stesso tempo ci introduce al film Doppio autoritratto (1973-74) di Marinella Pirelli, in cui l’artista interpreta molteplici ruoli, come soggetto e oggetto, attrice e operatrice; sia davanti alla telecamera sia dietro.
Il doppio autoritratto di Pirelli è un commovente atto di auto-rivelazione. In un modo non troppo dissimile da Solitudine Femminile di Fioroni, ci confrontiamo qui con la complessità della soggettività femminile nella sua forma più cruda. Dapprima a occhi chiusi, Pirelli inizia a rivelarsi a noi. Fissa la telecamera e ci invita a interagire con lei dall’altra parte dello schermo. Segue un cambio d’inquadratura netto e perdiamo di vista il volto di Pirelli. Ora i primi piani del corpo dell’artista assediano in maniera caotica la telecamera. L’artista è ancora presente, ma si intravedono solo i suoi capelli, il collo e il cuoio capelluto. Alla fine del film ritroviamo il volto di Pirelli, che acquista una qualità diversa alla luce della rappresentazione anticonvenzionale che abbiamo appena osservato. Una malinconia offusca l’espressione finale di Pirelli, mentre saluta noi e la telecamera. Infatti questo è stato l’ultimo film dell’artista. Al tempo, aveva perso da poco il marito, e ha utilizzato la telecamera come luogo sia di lutto sia di scoperta di sé. “QUANDO MI VIDI NON C’ERO,” le parole dell’artista concettuale Vincenzo Agnetti—a cui Pirelli dedica l’autoritratto—raccontano l’esperienza di ritrovarsi nell’ombra lunga della perdita.

Marinella Pirelli, Doppio autoritratto, 1973-74. Still da film. Film, 16mm, trasferito in digitale, colore, sonoro, 13:00 min. © The Estate of the Artist. Courtesy di Richard Saltoun Gallery, Londra
Nonostante siano entrambi autoritratti, il contrasto di temperatura tra Doppio autoritratto e Narciso, un film realizzato da Pirelli nel 1966, non potrebbe essere più netto. Narciso, come suggerisce il titolo, è informato da un’indulgenza narcisistica. Corpo e linguaggio diventano una cosa sola, mentre Pirelli ci conduce attraverso una sceneggiatura ribelle simile a un flusso di coscienza. Si delizia della vita e di se stessa. Nel frattempo la telecamera che tiene in mano ci mostra parti diverse del suo corpo. Mentre la voce di Pirelli è volutamente sensuale, i pensieri che esprime sottolineano la tensione esistenziale di cui fa esperienza in quanto donna divisa tra la casa e lo studio. L’artista esprime la sua verità trasformando il linguaggio in un’arma pronta a colpire e che la telecamera è lì per registrare. L’immediatezza del medium, così come la sua capacità di unire suono e immagine in un legame indissolubile, guidano Pirelli in questo esercizio soggettivo che riflette sull’identità accompagnandoci al suo interno. Narciso termina con una nota sobria in cui l’artista afferma che “il silenzio sta calando.” A differenza di Doppio autoritratto non vediamo mai il viso di Pirelli ma solo il suo corpo. In entrambi i casi, l’artista considera la telecamera come uno strumento speculare che l’aiuta nella ricerca e nella riaffermazione delle sue identità mutevoli. In quanto estensione protesica dell’artista, la telecamera diventa luogo di conoscenza e di emancipazione, per riaffermare l’Io di Pirelli come donna e artista.
Guardare ed essere guardata

Laura Grisi, Distillations – 3 Months of Looking, 1970. Artestudio, Macerata, cm 22,5×24. Courtesy di Laura Grisi Estate, e P420, Bologna. Foto di Carlo Favero
“Guardo la varietà delle piante – Mindanao, isole Sulu”
“Guardo come si muovono le piante – Maupiti, isole Sottovento”
“Guardo il fuoco – Deserto del Ciad”
“Guardo come si muove l’oceano – Rangiroa”
“Guardo l’orizzonte – Deserto del Niger”
“Guardo un flusso di lava – vulcano Tanna, Nuove Ebridi”
“Guardo il sole – Manihi, atolli Tuamotu”
“Guardo l’acqua – Raiatea, isole Sottovento”12
Nel 1970 Laura Grisi viaggia per tre mesi e, in questo periodo, guarda e guarda attentamente l’ambiente circostante. I quattro elementi (terra, acqua, aria e fuoco) sono centrali nell’osservazione che Grisi fa della natura. Per ogni luogo l’artista genera una nuova serie di dati, che registrano attentamente le sue osservazioni, così come le sue risposte fisiche ed emotive al paesaggio che cambia. Verosimilmente il progetto di Grisi declina “il personale è politico” in il personale è la natura. La sua osservazione delle diverse condizioni ambientali era allo stesso tempo liberatoria e guidata da un insieme di regole create dall’artista stessa. Queste avevano lo scopo di organizzare e classificare le sue percezioni visive, conferendo all’intero progetto una base concettuale-scientifica. Grisi ha raccolto desideri e appunti soggettivi attraverso esercizi ed esperimenti, e li ha poi trasformati in dati oggettivi. Tuttavia l’Io rimaneva centrale per le osservazioni dell’artista, che aveva messo se stessa alla base del progetto.

Laura Grisi, Distillations – 3 Months of Looking, 1970. Artestudio, Macerata, cm 22,5×24. Courtesy di Laura Grisi Estate, e P420, Bologna. Foto di Carlo Favero
I risultati dei tre mesi di ricerca di Grisi sono stati raccolti in un libro fotografico intitolato Distillations – 3 Months of Looking (Distillazioni – 3 mesi di osservazioni, 1970), la cui parte testuale è accompagnata da immagini in bianco e nero. Per Grisi, la distillazione era “[una] procedura: un estratto di esperienze visive, mentali, spirituali” e un concetto che ha continuato a informare molti lavori.13 La prima tra le Distillations è stata un’azione che ha visto Grisi contare i granelli di sabbia nel deserto: The Measuring of Time (1969) è stata un’impresa incommensurabile, data l’impossibilità di sapere mai veramente quanta sabbia ci sia nel deserto. Girato in un’unica sequenza a spirale, il film inizia con un primo piano sulle mani di Grisi — enfatizzando così il suo gesto ripetitivo — da cui si allontana gradualmente per rivelare l’artista che esegue l’azione.

Laura Grisi, Distillations – 3 Months of Looking, 1970. Artestudio, Macerata, cm 22,5×24. Courtesy di Laura Grisi Estate, e P420, Bologna. Foto di Carlo Favero
Anche se il principale oggetto del contendere in The Measuring of Time è la ripetizione durante un certo arco di tempo, il soggetto che mi interessa qui è Grisi. A differenza delle sue contemporanee, l’artista non hai mai guardato al proprio corpo come luogo di auto-riflessione. L’indagine sugli elementi naturali, così come la loro replica nello spazio espositivo, è rimasta una delle principali preoccupazioni di Grisi. Dare voce alle lotte delle donne non era un imperativo che l’artista perseguiva attivamente, rendendo l’opportunità di inserire la sua ricerca nel contesto di questo saggio piuttosto discutibile. Tuttavia, direi che la presenza di Grisi in molte delle sue opere è più significativa di quanto si sarebbe indotti a supporre. Innanzitutto Grisi ha assunto molteplici sembianze: soggetto e oggetto, regista e attrice, fotografa e modella. In altre parole, Grisi si è inserita nel lavoro e così facendo ha riaffermato il suo ruolo di creatrice e osservatrice. Anche quando si trattava di natura, il suo “Io” ha mantenuto il controllo, come si vede in Distillations – 3 Months of Looking. Quell’“Io” che Grisi ha costantemente perseguito non è mai stato strettamente legato all’autorappresentazione, anzi veniva riaffermato dal medium scelto, cioè la fotografia. Fin dall’inizio della sua carriera, Grisi ha usato la macchina fotografica come un dispositivo di mediazione per potenziare la sua visione del mondo. Negli anni ’60, come Fioroni, ha continuato a perseguire un modello ibrido di pittura, che ha descritto come “un mondo visto attraverso l’obiettivo di una macchina fotografica.”14 In questa serie di lavori, la tela ospita una lente ipotetica, per lo più sfocata, che altera la percezione della realtà. Come Pirelli, anche Grisi ha continuato a sperimentare con il film e l’installazione. Ma l’obiettivo della fotocamera, sia come strumento documentaristico sia come metafora dello sguardo, è rimasto un tratto fisso. Probabilmente l’obiettivo della fotocamera era l’alter ego di Grisi, che le permetteva di guardare ed essere guardata senza necessariamente concentrarsi su se stessa.
Io, donna

Ketty La Rocca, La Gabbia, 1964-65. Collage, cm 44,5 x 29,5. Courtesy di The Ketty La Rocca Estate (gestito dal figlio dell’artista, Michelangelo Vasta)
I resoconti dell’arte e del femminismo italiani degli anni ’60 e ’70 includono il lavoro di Fioroni, Grisi e Pirelli solo sporadicamente. A differenza di Gravier e La Rocca, queste tre artiste non consideravano le loro opere come esplicite armi di protesta e contestazione sociale. Il loro femminismo, se così si può descrivere, era sottile e spesso mascherato da strati di sperimentazione. Anche quando si trattava di pittura—vedi i ritratti di donne di Fioroni—la macchina fotografica come strumento ottico e metaforico rispondeva alla necessità precisa e diffusa di consapevolezza e autonomia. La macchina da presa, così come quella fotografica, era fondamentalmente un veicolo per interpretare l’implicito, oltre che l’esplicito. A questo proposito, la ricerca di Fioroni, Grisi e Pirelli è strettamente allineata agli esperimenti di Gravier e La Rocca con la fotografia e il fotomontaggio. Nelle loro rispettive pratiche, Gravier e La Rocca si sono mosse consapevolmente all’interno di una cultura maschilista con l’obiettivo di contrastare gli stereotipi femminili. Come vedremo, attraverso la giustapposizione di immagini e parole sono riuscite a estrarre nuovi significati da quelli esistenti.
La Rocca ha contestato l’alfabeto in quanto deposito di una cultura dominata dagli uomini. Come le sue contemporanee Mirella Bentivoglio e Tomaso Binga, La Rocca ha intrapreso un esame sistematico del linguaggio volto a mettere in primo piano una nuova dialettica femminista. Il corpo, per La Rocca, ha assunto una valenza simbolica in questo tentativo di riposizionare il soggetto femminile. Nei suoi fotomontaggi, ha sabotato il modo con cui i mezzi di comunicazione di massa insistono a ritrarre le donne come oggetti di desiderio e fantasia. Ne La Gabbia (1964-65), per esempio, La Rocca ha dato voce alla doppia oppressione a cui le donne erano sottoposte, intrappolate dalle faccende domestiche (esemplificate dal maglione appeso a uno stendibiancheria) e soggette alla pressione della società per essere giovani e belle (simboleggiata dai prodotti per il trucco). L’irriverenza degli abbinamenti verbo-visivi di La Rocca li ha inscritti in una tradizione dadaista che si rifaceva ai fotomontaggi politici di Hannah Höch. Mossa da un simile desiderio di denunciare i mali della società, La Rocca ha respinto attivamente l’immagine femminile come unica fonte di bellezza, giovinezza, e purezza e l’ha riformulata riconoscendo l’essere donne come un terreno di contesa.

Ketty La Rocca, La Gabbia, 1964-65. Collage, cm 44,5 x 29,5. Courtesy di The Ketty La Rocca Estate (gestito dal figlio dell’artista, Michelangelo Vasta)
Emergendo da secoli di oppressione, le donne di La Rocca si sono espresse contro la cultura patriarcale e capitalista che aveva costantemente coercito i loro corpi e cancellato le loro voci. L’artista si è appropriata dei detriti della fotografia commerciale, e ha rivendicato il diritto delle donne di parlare apertamente; una scelta che ricorda l’articolo di Germaine Greer dal titolo eloquente “Il nudo non è in vendita” pubblicato sul primo numero della rivista femminista “Effe” nel 1973. Greer invitava le donne a salvare la rappresentazione del nudo dalla mercificazione dilagante e affermava come: “Non è l’esposizione del corpo femminile vero che ci umilia; ci offende la sostituzione di un corpo fabbricato, mascherato e incompleto […].” A cui aggiungeva la nota amara: “È stata la fotografia a partorire questo mostro.”15 È proprio questa qualità mostruosa, che Greer attribuisce alla fotografia, che ha spinto La Rocca verso la sua ricerca sull’immaginario appropriato. Recuperando l’agentività delle donne sui loro corpi, La Rocca ha contemporaneamente recuperato l’agentività della fotografia dalla fossa della subordinazione in cui la cultura della merce l’aveva gettata.

Nicole Gravier, Non è Possibile, 1976 -1980. Collage su C- print. 30×40 cm. Courtesy dell’artista e ERMES ERMES
Nella serie “Mythes et Clichés” (1976-1980) anche Gravier si proponeva di sabotare gli stereotipi femminili. Nello specifico, ha esposto i cliché dei fotoromanzi: storie in stile fumetto rivolte a giovani donne e casalinghe. Gravier ha fatto una parodia dello stile sdolcinato e delle convenzioni narrative del fotoromanzo presentandosi come l’eroina di una di queste storie. Ha rivelato così come il fotoromanzo fosse caratterizzato da tropi stereotipati immaginati dagli editori maschi per le loro lettrici femminili. Accentuando le pose languide e rielaborando banalità ritrite, Gravier ha minato la natura sognatrice di questi melodrammi altamente coreografati.
In Non è possibile, un lavoro della serie “Mythes et Clichés,” il viso sgomento dell’artista ci dice che il contenuto della lettera che tiene nella mano destra è scioccante. Il gesto esagerato è esaltato dal fumetto che recita: “Stenta ancora a credere a quello che ha letto. Le sue mani tremano mentre stringe quel foglio di carta.”

Nicole Gravier, Roberto (Moro), 1976 -1980. Collage su C- print. 30×40 cm. Courtesy dell’artista e ERMES ERMES
La prevedibilità emotiva di questa e di altre immagini della serie auto-mitizzata di Gravier è complicata dall’inserimento di elementi che alludono alla politica e alla società contemporanee. Per esempio, in Roberto (Moro) si vede Gravier sdraiata su una coperta rosa e circondata da riviste. Sogna ad occhi aperti: “Roberto… Roberto, amore mio” e noi ci resta che chiederci, chi è Roberto? Suo marito, il suo amante o un personaggio di un fotoromanzo? La risposta sta al di là delle nostre aspettative, e l’artista ne è affascinata. Non appena scorgiamo la rivista politica “Panorama” che giace tra altri fotoromanzi scadenti, avviene un cambiamento radicale di tono. La storia di copertina sul politico democristiano Aldo Moro, rapito e ucciso dalle Brigate Rosse nel 1978, incupisce l’atmosfera della messa in scena. Inserendo “Aldo” in un’immagine che presumibilmente riguarda “Roberto,” Gravier dà nuovo significato alla sua verità fittizia. Infatti, simboli nascosti come “Aldo” fanno acquistare una qualità sovversiva alle scene cliché dell’artista, che mina la loro dolce stupidità. Nel ruolo di attrice, narratrice, scenografa e fotografa, Gravier dà una svolta femminista a un formato collaudato, quello del fotoromanzo, che per molto tempo aveva avuto tanti scopi fuorché quello emancipatorio. Come Fioroni, Grisi, La Rocca, Mangini e Pirelli, Gravier prende il controllo della storia e sposta il punto di vista lontano dallo sguardo univoco maschile e vicino al soggetto femminile.
In vari modi e forme, tutte le donne discusse qui si sono cimentate nella narrazione. Attraverso la rappresentazione e la rappresentazione di sé, il gioco di ruolo e l’osservazione, la pittura e la fotografia, il film e il fotomontaggio, hanno posto una domanda semplice ma inedita e perspicace per il tempo e che ancora oggi rimane aperta: di chi è questa storia?
—Traduzione dall’inglese di Bianca Stoppani
Flavia Frigeri, Storica dell’Arte e Chanel Curator for the Collection, National Portrait Gallery, Londra
Flavia Frigeri è storica dell’arte e ‘Chanel Curator for the Collection’ presso la National Portrait Gallery di Londra. Dal 2016 al 2020, è stata Teaching Fellow presso il Dipartimento di Storia dell’Arte UCL, Londra, e continua a far parte del corpo insegnanti del MA in Arte Contemporanea del Sotheby’s Institute. In precedenza è stata Curatrice per l’Arte internazionale, Tate Modern, Londra, dove ha co-curato The World Goes Pop (2015) ed è stata responsabile di Henri Matisse: The Cut-Outs (2014), tra altre mostre.
1 Cecilia Mangini, Essere donne, 1965, film
2 Cecilia Mangini quoted in Allison Grimaldi Donahue, Finding the Real in the Magic: What Cecilia Mangini Gave Us, «Another Gaze/Another Screen», rivista online, ultimo accesso marzo 2021
3 Cecilia Mangini ha approfondito questo concetto in un’intervista a Martina Troncano: “…la cosa più importante è l’égalité, cioè l’uguaglianza di tutti gli esseri umani, uomini, donne, omosessuali, lesbiche, transgender.” Intervista citata in Ibid.
4 Silvia Federici, “Wages Against Housework” (1974) ristampato in The Unexpected Subject: 1978 Art and Feminism in Italy, a cura di Marco Scotini e Raffaella Perna (Milano: Flash Art, 2019), p. 39
5 Il “soggetto femminile” è stato oggetto della mostra recente “Il Soggetto Imprevisto. 1978 Arte e femminismo in Italia,” curata da Marco Scotini e Raffaella Perna presso FM Frigoriferi Milanesi, Milano. La mostra ha analizzato la relazione tra l’arte e il movimento femminista portando alla luce nodi critici e tangenze precedentemente inesplorate.
6 Giosetta Fioroni citata in Giosetta Fioroni, a cura di Germano Celant, Milano: Skira 2009, p. 112
7 Ibid.
8 Ibid., p. 139
9 Goffredo Parise, “Roma pop art” (1965) ristampato in Giosetta Fioroni, p. 127
10 Fioroni citata in Giosetta Fioroni, p. 133
11 Marinella Pirelli, Doppio autoritratto, 1973-74, film
12 Laura Grisi, 3 Months of Looking, Macerata: Edizione Artestudio 1970
13 Laura Grisi, Laura Grisi, New York: Rizzoli International 1990, p. 31
14 Ibid, p. 17
15 Germaine Greer, citata in Raffaella Perna, “Notes on Photography, Art and Feminism in Italy” in M/A\G/M\A Body and Words in Italian and Lithuanian Women’s Art from 1965 to the Present, a cura di Benedetta Carpi de Resmini e Laima Kreivytė, Macerata: Quodilibet 2018, p. 203