SALUTERÒ DI NUOVO IL SOLE
Shirin Neshat in conversazione con Valentine Umansky
Shirin Neshat e Valentine Umansky discutono di poesia iraniana, di politica e immigrazione in Nord America, delle dinamiche di potere nell’industria cinematografica, e delle molte donne che ammirano, tra cui la regista Forugh Farrokhzad e la cantante Umm Kulthum.
Shirin Neshat, Land of Dreams, 2019. Still da video. Installazione audiovideo a doppio canale. Video monocromo HD. Copyright Shirin Neshat. Courtesy di Gladstone Gallery, New York e Bruxelles
Valentine Umansky: Tutto comincia con la tua retrospettiva al The Broad di Los Angeles, l’ultima mostra che ho visto prima della pandemia, nel febbraio del 2020. Poco dopo sono partita per un viaggio nel Regno Unito e mi sono ritrovata bloccata in Europa perché Donald J. Trump aveva chiuso le frontiere internazionali!
Shirin Neshat: È vero, in quel periodo vivevi in Ohio.
VU: Sì e, pur avendo il visto, non sono potuta tornarci. Emigrare negli Stati Uniti è sempre un incubo, a prescindere dal contesto.
SN: Non ti sembra che la situazione sia peggiorata negli ultimi anni?
VU: Direi che è peggiorata con l’ultimo Presidente.
SN: E poi cos’è successo? Sei rimasta nel Regno Unito e hai trovato un altro lavoro?
VU: In sostanza sì. Però prima di partire dagli Stati Uniti ho visto la tua retrospettiva!
SN: Come vogliamo iniziare questa conversazione?
VU: Ho un rito per queste occasioni. Hai un foglio di carta e una penna?
SN: Sì.
VU: Posso chiederti di scrivere due versi di una poesia o di una canzone che consideri importante, senza pronunciarli ad alta voce?
SN: In persiano o in inglese? [ride]
VU: Come preferisci, non dev’essere per forza in inglese.
SN: Fatto!
VU: Perfetto. Dopo ti chiederò cos’hai scritto, ma mi sembra un bel modo per iniziare.
SN: Nelle mie opere ho usato spesso alcune poesie, potrei scriverle a occhi chiusi.
VU: Ecco, partiamo da questo. La poesia è onnipresente nella tua produzione: come descriveresti il tuo rapporto con la letteratura?
SN: Sono cresciuta in Iran ed è risaputo che gli iraniani nutrono un forte interesse per la letteratura, antica, moderna o contemporanea che sia. Mio padre ci recitava spesso delle poesie, a volte per dire qualcosa di importante. Vivevo in una piccola città, eppure anche nel nostro liceo abbiamo studiato le opere complesse degli esistenzialisti occidentali.
Da un certo punto di vista mi considero una poetessa anch’io. Sono affascinata dai valori allegorici e simbolici della poesia. Le metafore ci consentono di essere sovversivi senza infrangere le regole. Non bisogna dimenticare che sono cresciuta sotto una dittatura, in cui la censura era all’ordine del giorno, uno stile di vita. Gli iraniani hanno imparato a esprimere e percepire l’arte in modo creativo, attraverso enigmi e simbolismi.
DA UN CERTO PUNTO DI VISTA MI CONSIDERO UNA POETESSA ANCH’IO. SONO AFFASCINATA DAI VALORI ALLEGORICI E SIMBOLICI DELLA POESIA. LE METAFORE CI CONSENTONO DI ESSERE SOVVERSIVI SENZA INFRANGERE LE REGOLE. NON BISOGNA DIMENTICARE CHE SONO CRESCIUTA SOTTO UNA DITTATURA, IN CUI LA CENSURA ERA ALL’ORDINE DEL GIORNO, UNO STILE DI VITA. GLI IRANIANI HANNO IMPARATO A ESPRIMERE E PERCEPIRE L’ARTE IN MODO CREATIVO, ATTRAVERSO ENIGMI E SIMBOLISMI.
Nel 2009 ho realizzato l’adattamento cinematografico di Donne senza uomini (1990), un romanzo di Shahrnush Parsipur che attinge alla tradizione del realismo magico. Una storia splendida, scritta da un’iraniana. Un’altra poetessa che ammiro moltissimo è Forugh Farrokhzad, morta a trentadue anni. La sua produzione è fondamentale per la letteratura iraniana moderna. Pur essendo scomparsa negli anni Sessanta, molto prima della rivoluzione, ha affrontato tematiche come religione, sessualità, femminismo e politica, in un modo unico, con grande chiarezza e un approccio ribelle. Ne ha parlato in termini assolutamente universali e senza tempo.
VU: Ha anche girato un film incredibile…
SN: Sì, La casa è nera (1962). Penso spesso a cosa rappresenta Forugh per le donne del mio Paese: la sua bellezza, la sua vulnerabilità, il rapporto conflittuale con gli uomini e con la maternità. Il suo isolamento all’interno della società iraniana. E la maestosa eredità che ha lasciato nonostante queste sfide. Confesso di essere affascinata da artiste, poetesse, scrittrici e cantanti iconiche che, pur conducendo vite complicate, sono riuscite ad arricchire il panorama culturale.
VU: All’inizio del primo lockdown ho inaugurato uno scambio cinematografico con un amico, il regista Michelange Quay. E il film di Farrokhzad è stato tra i primi che ho condiviso con lui.
SN: Hai condiviso La casa è nera?
VU: Proprio così. In quei primi giorni di lockdown è stato interessante adottarne la prospettiva, era un modo per riflettere sul significato politico della reclusione.
SN: È un film che riesce a essere bellissimo senza sforzarsi di esserlo e che dimostra come si possa trovare la grazia persino nell’orrore della malattia.1 Un aspetto che mi piace di Forugh e Shahrnush Parsipur è che nessuna delle due può essere relegata nei confini della società iraniana. Usano un linguaggio che trascende le particolarità della loro cultura.
VU: Possiamo dire lo stesso di Nizami Ganjavi, di cui parla una delle tue opere.
SN: Sì, non conoscevo altrettanto bene la sua poesia, ma Ganjavi è persiano. Alcuni ritengono che sia iraniano, altri azero. All’inizio della serie The Home of My Eyes (2015) ho pensato che sarebbe stato interessante scrivere alcune delle sue poesie sui ritratti scattati per il progetto.
Shirin Neshat, Rebellious Silence, 1994. Dalla serie “Women of Allah”. Inchiostro su carta ai sali d’argento stampata laser. Copyright Shirin Neshat. Courtesy di Gladstone Gallery, New York e Bruxelles
VU: Questo è un ottimo spunto per parlare del tuo rapporto con letteratura e calligrafia.
SN: La natura della mia pratica fotografica è cambiata nel tempo. All’inizio scattavo autoritratti, ma ho smesso nel 2012 con Book of Kings. La serie, composta da sessanta ritratti divisi in tre gruppi [Folle, Patrioti e Cattivi, NdA], è una narrazione allegorica sulle manifestazioni organizzate in Iran dal Movimento Verde nel 2009, sulla Primavera araba e sulle rivolte rivoluzionarie che poi si diffusero in tutto il mondo arabo. La serie si focalizzava sui concetti di patriottismo, devozione e spirito di sacrificio; offriva spazio ai giovani che, lottando per la democrazia, hanno dovuto affrontare abusi, arresti e torture sistematiche.
L’anno seguente, con Our House Is on Fire, la mia produzione fotografica ha preso una direzione diversa e mi sono avvicinata al documentario. Anziché fotografare i miei amici, cercavo attivamente i soggetti da immortalare. Sono andata in Egitto per conoscere e fotografare persone nuove. Con l’aiuto di amici e interpreti ho intervistato persone anziane, religiose, indigenti, appartenenti perlopiù alla comunità dei Fratelli Musulmani, che aveva sofferto moltissimo durante la rivoluzione egiziana. Hanno condiviso con me le loro storie ed esperienze, e anche le loro lacrime.
Nel 2014 sono stata invitata a lavorare in Azerbaigian, una nazione famosa per il suo carattere multietnico. In questo Paese, che confina con l’Iran e di cui mia madre è originaria, ho intervistato azeri dalle diverse radici etniche: armeni, russi, turchi. Ho chiesto cosa significasse per loro il concetto di “casa” e poi ho trascritto le risposte sui loro corpi, in persiano. È un tema particolarmente intenso per una persona come me, per cui l’idea di “casa” continua a essere un nodo emotivo irrisolto.
L’opera più recente che ho realizzato, Land of Dreams (2020), illustra il mio punto di vista sugli Stati Uniti, dove ho vissuto più a lungo che nel mio Paese d’origine, una nazione che amo ma a cui non risparmio le critiche. Ho deciso di girare e scattare nel Sud-Ovest del Paese, anche perché il Nuovo Messico ricorda i paesaggi sublimi dell’Iran. Mi sono spostata da un luogo all’altro, ho fatto visita a comunità dai diversi retroterra etnici, religiosi ed economici, tra cui nativi americani, afroamericani, immigrati latinoamericani e persone originarie di Los Angeles. Volevo scoprire quali esperienze avessero vissuto, da americani per nascita o naturalizzazione, nell’epoca post-Trump, un periodo caratterizzato da uno spudorato suprematismo bianco, dall’ascesa di posizioni conservatrici, dal razzismo e dalle politiche contro gli immigrati. È stato proprio nel Sud-Ovest che ho legato con persone che, come me, si sforzavano ancora di vedere gli Stati Uniti come la “terra dei sogni”, malgrado l’inquietudine per il futuro.
Shirin Neshat, Land of Dreams, 2019. Still da video. Installazione audiovideo a doppio canale. Video monocromo HD. Copyright Shirin Neshat. Courtesy di Gladstone Gallery, New York e Bruxelles
VU: I titoli che scegli per le tue opere mi colpiscono molto. Land of Dreams, per esempio, capovolge il concetto di “dreamland”, un’espressione che gli stranieri che sperano di emigrare negli Stati Uniti usano spesso. E mi colpiscono anche le scene raccontate dalla prospettiva di due gruppi diversi di persone. Il rovesciamento dei punti di vista è un tema ricorrente nella tua produzione: potresti approfondire questo aspetto?
SN: Pensavo proprio ieri al fatto che tutto quello che ho realizzato, dalla serie fotografica Women of Allah (1997) al film Donne senza uomini, sia incentrato sulla dualità. E il motivo è semplice: sono un individuo definito dall’esilio, una personificazione del concetto di ibrido. Sono iraniana ma non del tutto, sono americana ma non del tutto. Mi trovo sempre in una situazione intermedia, non ho mai una collocazione precisa, e le mie opere sembrano aver accolto questa forma di contraddizione.
Le prime scene di Land of Dreams mostrano il monumentale deserto del Sud-Ovest abbinato a uno spazio industriale e claustrofobico, quello della colonia. Si tratta di un ambiente creato dall’uomo, autoritario e opprimente che somiglia a una centrale nucleare ed evoca gli uffici della burocrazia sovietica. Gli uomini e le donne al suo interno indossano camici da laboratorio bianchi e sono impegnati a ricevere, processare e analizzare i ritratti e i sogni dei cittadini americani. La colonia è una satira politica del governo iraniano, delle sue assurdità e della sua costante retorica anti-americana. Fuori dalla colonia, lo spettatore si trova di fronte uno sconfinato paesaggio naturale che lambisce una città americana, i cui abitanti svelano le proprie ansie legate a migrazione forzata, abbandono e perdita.
VU: Te l’avrei chiesto ugualmente, ma dato che ne hai appena parlato… I tuoi sogni somigliano ai tuoi film?
SN: Roja (2016) è la rappresentazione fotogramma per fotogramma di un sogno che ho fatto. Negli ultimi anni sogno quasi sempre mia madre, che vive in Iran. In Roja compare una donna iraniana in un contesto occidentale. Il suo sguardo è rivolto a est, e all’improvviso vede apparire sua madre in lontananza. Mentre corre verso di lei, scopre che la madre si è trasformata in un mostro che la allontana subito. Ho sempre pensato che questo sogno celi la paura di perdere mia madre, ormai anziana, e la possibilità che quel lutto segni il punto di rottura definitivo con il mio Paese d’origine.
VU: Anche la versione espositiva di Land of Dreams mi è sembrata molto autobiografica. Ricordo che guardando la protagonista, una studentessa d’arte che ha il compito di fotografare i cittadini statunitensi e di scoprirne i sogni, ho pensato: “Ma è Shirin”.
SN: In un certo senso è il mio alter ego. In effetti, osservando con attenzione le mie ultime opere video – Roja, Sarah (2016), Illusions and Mirrors (2013) e ora Land of Dreams –, risulta evidente che le protagoniste femminili hanno dei tratti fisici in comune (minute, occhi grandi) e sono tutte vestite di nero. Guidata dall’istinto, ho creato delle proiezioni di me stessa. È interessante notare che all’inizio realizzavo autoritratti e che ora sono le mie muse a interpretarmi.
Cambiando leggermente discorso, vorrei chiederti come ti è sembrata la presentazione di Land of Dreams. Al Broad ho esposto i due video in stanze diverse in modo che gli spettatori dovessero guardarli separatamente. Quando però ho preparato la mostra alla Gladstone Gallery di New York, ho dovuto misurarmi con le nuove restrizioni legate al Covid-19. La galleria non poteva allestire due stanze buie, e così ho deciso di montare i due video in una versione composita, in modo che potessero essere proiettati insieme, l’uno accanto all’altro, in uno spazio aperto. E dopo mi sono resa conto che quella presentazione si adattava meglio al significato dell’opera, perché faceva affiorare molti esempi di dualità: il paesaggio naturale contrapposto allo spazio industriale claustrofobico, il sogno contrapposto alla realtà, la cultura iraniana contrapposta a quella americana. Sono emerse inoltre delle coincidenze inaspettate, ed è stato davvero magico: per esempio il momento in cui su uno schermo il giudice parla di un’anziana immigrata, e lei compare nell’altro schermo, a letto. Tu hai visto entrambe le versioni: che ne pensi?
Shirin Neshat, Rapture series, 1999. Stampa ai sali d’argento. Copyright Shirin Neshat. Courtesy di Gladstone Gallery, New York e Bruxelles; e Noirmontartproduction, Parigi
VU: Sono opere incredibili anche viste singolarmente, ma credo di averle capite meglio quand’erano affiancate. Ho notato i personaggi che entravano e uscivano dai due schermi ma, soprattutto, la versione composita sottolinea la precisione con cui è calcolato il ritmo delle singole opere. Questa struttura binaria mi ha ricordato, la tua opera del 1999 che si concentra su un gruppo di donne e uno di uomini. In mostra era stata installata su due schermi posti l’uno di fronte all’altro, e il pubblico doveva girarsi una prima volta per vedere gli uomini, e una seconda per osservare la risposta delle donne, in una sorta di botta e risposta. Il pubblico era immerso nel dialogo e in un certo senso lo scandiva.
SN: Sì, sotto molti punti di vista il pubblico assume il ruolo del montatore. Con Turbulent (1998) è stato diverso2 perché il personaggio maschile, Shoja,3 e quello femminile, Sussan,4 si alternavano. In Rapture ho creato momenti di attività simultanea seguiti da pause: gli uomini guardavano le donne e viceversa finché entrambi i gruppi riprendevano l’azione.
Tornando agli opposti, Soliloquy (1999) – che tra parentesi è l’unico video in cui io sia mai comparsa – presenta dei parallelismi con Land of Dreams. È una proiezione a due canali, uno ambientato a Ovest (è stato girato a New York e Albany) e l’altro girato a Est (a Mardin, in Turchia). In Land of Dreams, la protagonista si muove tra panorami iraniani e nord-americani e, come il mio personaggio di Soliloquy, Simin si veste sempre di nero.
VU: Volevo proprio chiederti di questa costante.
SN: Pensa a Turbulent, il mio primo video: la donna è vestita di nero, mentre l’uomo indossa una camicia bianca. In Rapture accade lo stesso. In Passage (2002), il film che ho realizzato con Philip Glass, gli uomini sono silhouette nere che trasportano un cadavere nel deserto. Le donne di Roja, Sarah e Illusions and Mirrors sono vestite di nero. È così che tutti i personaggi si trasformano in semplici silhouette.
VU: In realtà pensavo più a Illusions and Mirrors, in cui anche Natalie Portman è vestita di nero. Al di là del colore, mi ha colpito la sua silhouette fluida. La sua gonna ricorda molto un velo.
SN: Un fantasma.
VU: Esatto. Immagino che sia la scelta del bianco e nero a rendere intercambiabili i tuoi personaggi. Rende le silhouette atemporali, e questo ci riporta a un argomento che abbiamo già trattato, all’universalità dei temi che affronti. Pur parlando della rivoluzione iraniana, una tua opera può riferirsi anche all’Egitto.
SN: La semplicità per me è fondamentale, ma non voglio che i personaggi si perdano nello sfondo; devono stagliarsi come silhouette, come sagome. I soggetti delle mie fotografie sono quasi sempre vestiti di nero, in modo che il colore o il taglio degli abiti non siano una distrazione. È così che possiamo concentrarci sulle espressioni del viso.
VU: È per questo che la versione espositiva di Land of Dreams è in bianco e nero?
SN: Il bianco e nero emana un rigore che mi piace molto. Sottolinea la dualità. Anche i paesaggi risultano più belli, sembrano meno credibili, come dire…
VU: Astratti.
SN: Proprio così. L’assenza del colore attenua il realismo di un concetto o di una narrazione. Abbiamo riflettuto a fondo su questo aspetto per la versione estesa di Land of Dreams, ma alla fine abbiamo optato per il colore.
VU: Trovo che il legame con l’atemporalità sia un tratto molto peculiare. Land of Dreams ci invita a esplorare un sogno surrealista, e l’unica inquadratura che ci riporta alla realtà è quella della libreria della colonia, che ci mostra la scritta in arabo sul dorso dei raccoglitori. I caratteri rievocano la realtà.
SN: Interessante. A quanto pare Land of Dreams suscita diverse interpretazioni nel pubblico. Nella versione composita tutto diventa ancora più complesso perché lo spettatore deve continuamente dedurre il rapporto che lega i due schermi. Se si concentra più a lungo su un solo schermo, per esempio, rischia di perdere il filo della narrazione.
Shirin Neshat, Looking For Oum Kulthum, 2017. Still da film. Copyright Shirin Neshat. Courtesy dell’artista; e Razor Film.
VU: Mi parleresti della scelta di usare il colore in Looking for Oum Kulthum (2017)?
SN: Non avrei potuto girarlo in bianco e nero. È un film storico che rende omaggio a Umm Kulthum, vissuta nell’epoca del Technicolor. Il film rimanda alle locandine che raffiguravano le icone egiziane di quel periodo: dive seducenti, imponenti, che sfoggiavano colori esagerati. Pensa per esempio alla produzione di Youssef Nabil5: il film parla dello stesso periodo. Umm Kulthum era una donna alla moda e non volevo privarla di quell’aspetto. E inoltre il film doveva rispettare i dettagli della storia egiziana in un periodo in cui il Paese era davvero cosmopolita. Se l’avessi trasformato in un’opera video in bianco e nero, gli egiziani non me l’avrebbero mai perdonato.
VU: Interessante. Hai appena detto “gli egiziani non me l’avrebbero mai perdonato”, le stesse parole pronunciate dalla regista nel film!
SN: Sì, il video mostra la prospettiva di una persona non originaria dell’Egitto che osa girare un film sulla maggiore icona nazionale di tutti i tempi, mostra le sue difficoltà e il suo nervosismo nell’approcciarsi al progetto. La regista non nasconde i difetti della sua opera, anzi, e nemmeno il suo rifiuto di trasformare il soggetto in un eroe. È stato un esperimento, un film nel film, ma allo stesso tempo illustra la riflessione di un’artista su un’altra. Gli egiziani si aspettavano un film biografico, che però non mi interessava sviluppare. A posteriori ne sono orgogliosa, perché dimostra con grande sincerità che è impossibile soddisfare le aspettative di tutti.
VU: E parla chiaramente delle dinamiche di potere nell’industria cinematografica. Vediamo produttori che si tirano indietro, la tensione crescente fra la regista e un attore e, all’opposto, l’affetto che nasce tra la protagonista e la regista. La sua fragilità è tangibile finché non si sottrae ai giochi di potere e dice: “Va bene così, non dev’essere perfetto”.
SN: Girare quel film ha richiesto una buona dose di coraggio e sono felice di avervi investito le mie energie. Oltre a essere un omaggio alla leggendaria Umm Kulthum, mi ha permesso di porre domande importanti sulla condizione dell’artista, soprattutto dell’artista donna, su cosa richieda questo ruolo.
VU: Mi piace che il film mostri tre fasi della vita di una donna: la giovane attrice, la regista affermata e Umm Kulthum, più anziana. In un certo senso è il contrario dell’atemporalità di cui parlavamo prima, e potremmo dire che, in un momento precedente della tua carriera, non avresti potuto realizzare questo film.
SN: Hai assolutamente ragione, e non saprei spiegare perché abbia percepito tanta pressione per quel progetto, visto che andava al di là dei miei scopi culturali e tematici, ma in ogni caso mi ha insegnato molto. Muovermi nell’intersezione tra le arti visive e il cinema è stato speciale. Non è un’esperienza che appartiene soltanto a me, l’hanno fatto tanti artisti tra cui Steve McQueen e Matthew Barney, però penso che ognuno di noi abbia trovato un proprio equilibrio.
VU: Credo che la tua pratica a metà strada fra la videoarte e i lungometraggi rispecchi il modo in cui unisci fotografia e calligrafia. Immagino che questa posizione intermedia sia complessa, ma in fondo non è proprio la sfida ad attirarti?
SN: Lavoro con medium che non ho studiato! [ride] Hai ragione, e in effetti le mie giornate in studio sono un po’ schizofreniche. Ogni giorno parlo con curatori, musei, proprietari di gallerie, produttori, attori, responsabili di festival cinematografici e via dicendo. Gestire pratiche tanto diverse è divertente e impegnativo, ma mi tiene in allerta. In questo periodo sto selezionando i compositori per il mio prossimo film ed è una specie di appuntamento al buio, dato che loro non sanno chi sono e io non so molto sul loro conto!
Shirin Neshat, Turbulent, 1998. Still da video. Installazione audiovideo a doppio canale. Film in 16mm, bianco e nero, trasferito su video. Copyright Shirin Neshat. Courtesy di Gladstone Gallery, New York e Bruxelles
VU: Dato che hai citato i compositori, lascia che ti chieda qualcosa sul suono. In Roja, che si apre su Anohni che canta,6 c’è una scena fortemente incentrata sulla voce fuori campo. Prima hai anche parlato del compositore Philip Glass. Come incorpori l’aspetto sonoro nelle tue opere?
SN: La mia esperienza musicale è cominciata con Turbulent, che ha segnato l’inizio di una collaborazione con la cantante e compositrice Sussan Deyhim. In seguito ho lavorato con Ryūichi Sakamoto e Philip Glass, decisamente più minimalisti, che mi hanno fornito una nuova prospettiva sul valore della musica nei film.
VU: Meno è meglio.
SN: Sono andata quasi oltre il minimalismo. In Sarah, Roja e Illusions and Mirrors abbiamo usato pochissima musica, sfruttando quasi esclusivamente il sound design. In Land of Dreams c’è una sola melodia, lo splendido suono del setar, uno strumento persiano, suonato da Mohsen Namjoo, il cantante-compositore iraniano che ha scritto la musica.
VU: Si direbbe che hai attraversato tre fasi: la prima con Sussan Deyhim, poi il periodo minimalista con Glass.
SN: Un’evoluzione sonora. [ride]
VU: A che fase ti sembra di essere approdata?
SN: Rispetto al passato apprezzo decisamente di più il silenzio. Quando la musica è costante, si arriva quasi a non sentirla più. L’ho imparato da Donne senza uomini, in cui abbiamo mantenuto molto silenzio. Quando è arrivata la musica travolgente di Ryūichi Sakamoto, l’ho percepita come una ricompensa.
VU: Hai parlato di diversi silenzi ma, in Donne senza uomini, la radio è estremamente presente. La protagonista è ossessionata dai notiziari, e questo aspetto mi ha fatto riflettere sulla radio come strumento di condivisione, di unione: quando si verifica un colpo di Stato, l’annuncio viene fatto via radio. E questo accade anche nel tuo film, quando l’esercito occupa la società di comunicazioni. Il suono può rendere evidente l’imporsi di una nuova struttura di potere.
SN: Uno dei miei primi video, Pulse (2001), racconta la storia di una donna il cui unico legame con il mondo esterno è rappresentato dalla radio. Non esce mai di casa. La vediamo mormorare una canzone d’amore che sente proprio alla radio: l’interazione tra la donna e la voce della cantante rende l’atmosfera della scena molto sensuale, quasi erotica. Trovo che la radio sia un mezzo potentissimo… ma di questi tempi ormai si fa tutto con il computer. [ride]
VU: Come ti capisco! Forse è giunto il momento di chiedertelo: cos’hai scritto prima, Shirin?
SN: Indovina? È una poesia di Forugh Farrokhzad!
VU: Non poteva essere altrimenti. [ride]
SN: Ed è anche il titolo della mia mostra al The Broad. Ecco cosa dice:
به آفتاب سلامی دوباره خواهم داد
Saluterò di nuovo il sole.
VU: Una conclusione perfetta.
— Traduzione dall’inglese
di Aurelia Di Meo
Shirin Neshat, Artista
Shirin Neshat è un’artista visiva e regista iraniana che vive a New York. Attraverso la fotografia, il video e il film, Neshat crea narrazioni complesse che riguardano l’umanità e affrontano temi universali come il genere, lo sradicamento, l’oppressione e l’identità.
Neshat ha presentato il proprio lavoro in numerose mostre personali in tutto il mondo, sia in gallerie sia in musei, ed è stata insignita del Leone d’Oro – Primo Premio Internazionale alla 48a Biennale di Venezia (1999), del Leone d’Argento per la Migliore Regia alla 66a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (2009), The Crystal Award (2014) e il Premium Imperiale (2017), tra molti altri.
Valentine Umansky, Curatrice, Arte internazionale, Tate Modern, Londra
In qualità di curatrice, autrice e critica, Valentine Umansky ha lavorato per varie istituzioni dedicate alle arti visive e, al momento, è curatrice per l’Arte internazionale a Tate Modern, Londra. Nel 2015, dopo aver collaborato con il festival Rencontres d’Arles, ha pubblicato Duane Michals, Storyteller per Filigranes, poco prima di trasferirsi negli Stati Uniti. Da allora ha scritto per varie riviste d’arte tra cui Aperture e FOAM e ha curato mostre personali di Pamela Phatsimo Sunstrum e Saya Woolfalk, così come la mostra collettiva, “Confinement. Politics of Space and Bodies” a The Contemporary Arts Center (CAC), Cincinnati. Nel 2018 ha co-curato il LagosPhoto Festival e nel 2019 è stata responsabile della co-curatela della biennale FotoFocus 2020 e di Layers, una mappatura dell’arte nigeriana moderna e contemporanea, con Iheanyi Onwuegbucha.
1 La casa è nera racconta la vita nella colonia per lebbrosi a Baba Baghi, Iran.
2 Turbulent ha vinto un Leone d’oro alla Biennale di Venezia del 1999. È stata la prima incursione di Neshat nel mondo del cinema.
3 Shoja Azari, filmmaker iraniano e marito di Neshat.
4 Sussan Deyhim, compositrice e cantante iraniana.
5 Nabil, fotografo egiziano, realizza tableaux fotografici che ricordano fermo immagini dell’epoca d’oro del cinema del suo Paese. Ha fotografato Neshat nel 2004.
6 Anohni è più conosciuta con il nome della sua band, Antony and the Johnsons.
SALUTERÒ DI NUOVO IL SOLE
Shirin Neshat in conversazione con Valentine Umansky
Shirin Neshat e Valentine Umansky discutono di poesia iraniana, di politica e immigrazione in Nord America, delle dinamiche di potere nell’industria cinematografica, e delle molte donne che ammirano, tra cui la regista Forugh Farrokhzad e la cantante Umm Kulthum.
Shirin Neshat, Land of Dreams, 2019. Still da video. Installazione audiovideo a doppio canale. Video monocromo HD. Copyright Shirin Neshat. Courtesy di Gladstone Gallery, New York e Bruxelles
Valentine Umansky: Tutto comincia con la tua retrospettiva al The Broad di Los Angeles, l’ultima mostra che ho visto prima della pandemia, nel febbraio del 2020. Poco dopo sono partita per un viaggio nel Regno Unito e mi sono ritrovata bloccata in Europa perché Donald J. Trump aveva chiuso le frontiere internazionali!
Shirin Neshat: È vero, in quel periodo vivevi in Ohio.
VU: Sì e, pur avendo il visto, non sono potuta tornarci. Emigrare negli Stati Uniti è sempre un incubo, a prescindere dal contesto.
SN: Non ti sembra che la situazione sia peggiorata negli ultimi anni?
VU: Direi che è peggiorata con l’ultimo Presidente.
SN: E poi cos’è successo? Sei rimasta nel Regno Unito e hai trovato un altro lavoro?
VU: In sostanza sì. Però prima di partire dagli Stati Uniti ho visto la tua retrospettiva!
SN: Come vogliamo iniziare questa conversazione?
VU: Ho un rito per queste occasioni. Hai un foglio di carta e una penna?
SN: Sì.
VU: Posso chiederti di scrivere due versi di una poesia o di una canzone che consideri importante, senza pronunciarli ad alta voce?
SN: In persiano o in inglese? [ride]
VU: Come preferisci, non dev’essere per forza in inglese.
SN: Fatto!
VU: Perfetto. Dopo ti chiederò cos’hai scritto, ma mi sembra un bel modo per iniziare.
SN: Nelle mie opere ho usato spesso alcune poesie, potrei scriverle a occhi chiusi.
VU: Ecco, partiamo da questo. La poesia è onnipresente nella tua produzione: come descriveresti il tuo rapporto con la letteratura?
SN: Sono cresciuta in Iran ed è risaputo che gli iraniani nutrono un forte interesse per la letteratura, antica, moderna o contemporanea che sia. Mio padre ci recitava spesso delle poesie, a volte per dire qualcosa di importante. Vivevo in una piccola città, eppure anche nel nostro liceo abbiamo studiato le opere complesse degli esistenzialisti occidentali.
Da un certo punto di vista mi considero una poetessa anch’io. Sono affascinata dai valori allegorici e simbolici della poesia. Le metafore ci consentono di essere sovversivi senza infrangere le regole. Non bisogna dimenticare che sono cresciuta sotto una dittatura, in cui la censura era all’ordine del giorno, uno stile di vita. Gli iraniani hanno imparato a esprimere e percepire l’arte in modo creativo, attraverso enigmi e simbolismi.
DA UN CERTO PUNTO DI VISTA MI CONSIDERO UNA POETESSA ANCH’IO. SONO AFFASCINATA DAI VALORI ALLEGORICI E SIMBOLICI DELLA POESIA. LE METAFORE CI CONSENTONO DI ESSERE SOVVERSIVI SENZA INFRANGERE LE REGOLE. NON BISOGNA DIMENTICARE CHE SONO CRESCIUTA SOTTO UNA DITTATURA, IN CUI LA CENSURA ERA ALL’ORDINE DEL GIORNO, UNO STILE DI VITA. GLI IRANIANI HANNO IMPARATO A ESPRIMERE E PERCEPIRE L’ARTE IN MODO CREATIVO, ATTRAVERSO ENIGMI E SIMBOLISMI.
Nel 2009 ho realizzato l’adattamento cinematografico di Donne senza uomini (1990), un romanzo di Shahrnush Parsipur che attinge alla tradizione del realismo magico. Una storia splendida, scritta da un’iraniana. Un’altra poetessa che ammiro moltissimo è Forugh Farrokhzad, morta a trentadue anni. La sua produzione è fondamentale per la letteratura iraniana moderna. Pur essendo scomparsa negli anni Sessanta, molto prima della rivoluzione, ha affrontato tematiche come religione, sessualità, femminismo e politica, in un modo unico, con grande chiarezza e un approccio ribelle. Ne ha parlato in termini assolutamente universali e senza tempo.
VU: Ha anche girato un film incredibile…
SN: Sì, La casa è nera (1962). Penso spesso a cosa rappresenta Forugh per le donne del mio Paese: la sua bellezza, la sua vulnerabilità, il rapporto conflittuale con gli uomini e con la maternità. Il suo isolamento all’interno della società iraniana. E la maestosa eredità che ha lasciato nonostante queste sfide. Confesso di essere affascinata da artiste, poetesse, scrittrici e cantanti iconiche che, pur conducendo vite complicate, sono riuscite ad arricchire il panorama culturale.
VU: All’inizio del primo lockdown ho inaugurato uno scambio cinematografico con un amico, il regista Michelange Quay. E il film di Farrokhzad è stato tra i primi che ho condiviso con lui.
SN: Hai condiviso La casa è nera?
VU: Proprio così. In quei primi giorni di lockdown è stato interessante adottarne la prospettiva, era un modo per riflettere sul significato politico della reclusione.
SN: È un film che riesce a essere bellissimo senza sforzarsi di esserlo e che dimostra come si possa trovare la grazia persino nell’orrore della malattia.1 Un aspetto che mi piace di Forugh e Shahrnush Parsipur è che nessuna delle due può essere relegata nei confini della società iraniana. Usano un linguaggio che trascende le particolarità della loro cultura.
VU: Possiamo dire lo stesso di Nizami Ganjavi, di cui parla una delle tue opere.
SN: Sì, non conoscevo altrettanto bene la sua poesia, ma Ganjavi è persiano. Alcuni ritengono che sia iraniano, altri azero. All’inizio della serie The Home of My Eyes (2015) ho pensato che sarebbe stato interessante scrivere alcune delle sue poesie sui ritratti scattati per il progetto.
Shirin Neshat, Rebellious Silence, 1994. Dalla serie “Women of Allah”. Inchiostro su carta ai sali d’argento stampata laser. Copyright Shirin Neshat. Courtesy di Gladstone Gallery, New York e Bruxelles
VU: Questo è un ottimo spunto per parlare del tuo rapporto con letteratura e calligrafia.
SN: La natura della mia pratica fotografica è cambiata nel tempo. All’inizio scattavo autoritratti, ma ho smesso nel 2012 con Book of Kings. La serie, composta da sessanta ritratti divisi in tre gruppi [Folle, Patrioti e Cattivi, NdA], è una narrazione allegorica sulle manifestazioni organizzate in Iran dal Movimento Verde nel 2009, sulla Primavera araba e sulle rivolte rivoluzionarie che poi si diffusero in tutto il mondo arabo. La serie si focalizzava sui concetti di patriottismo, devozione e spirito di sacrificio; offriva spazio ai giovani che, lottando per la democrazia, hanno dovuto affrontare abusi, arresti e torture sistematiche.
L’anno seguente, con Our House Is on Fire, la mia produzione fotografica ha preso una direzione diversa e mi sono avvicinata al documentario. Anziché fotografare i miei amici, cercavo attivamente i soggetti da immortalare. Sono andata in Egitto per conoscere e fotografare persone nuove. Con l’aiuto di amici e interpreti ho intervistato persone anziane, religiose, indigenti, appartenenti perlopiù alla comunità dei Fratelli Musulmani, che aveva sofferto moltissimo durante la rivoluzione egiziana. Hanno condiviso con me le loro storie ed esperienze, e anche le loro lacrime.
Nel 2014 sono stata invitata a lavorare in Azerbaigian, una nazione famosa per il suo carattere multietnico. In questo Paese, che confina con l’Iran e di cui mia madre è originaria, ho intervistato azeri dalle diverse radici etniche: armeni, russi, turchi. Ho chiesto cosa significasse per loro il concetto di “casa” e poi ho trascritto le risposte sui loro corpi, in persiano. È un tema particolarmente intenso per una persona come me, per cui l’idea di “casa” continua a essere un nodo emotivo irrisolto.
L’opera più recente che ho realizzato, Land of Dreams (2020), illustra il mio punto di vista sugli Stati Uniti, dove ho vissuto più a lungo che nel mio Paese d’origine, una nazione che amo ma a cui non risparmio le critiche. Ho deciso di girare e scattare nel Sud-Ovest del Paese, anche perché il Nuovo Messico ricorda i paesaggi sublimi dell’Iran. Mi sono spostata da un luogo all’altro, ho fatto visita a comunità dai diversi retroterra etnici, religiosi ed economici, tra cui nativi americani, afroamericani, immigrati latinoamericani e persone originarie di Los Angeles. Volevo scoprire quali esperienze avessero vissuto, da americani per nascita o naturalizzazione, nell’epoca post-Trump, un periodo caratterizzato da uno spudorato suprematismo bianco, dall’ascesa di posizioni conservatrici, dal razzismo e dalle politiche contro gli immigrati. È stato proprio nel Sud-Ovest che ho legato con persone che, come me, si sforzavano ancora di vedere gli Stati Uniti come la “terra dei sogni”, malgrado l’inquietudine per il futuro.
Shirin Neshat, Land of Dreams, 2019. Still da video. Installazione audiovideo a doppio canale. Video monocromo HD. Copyright Shirin Neshat. Courtesy di Gladstone Gallery, New York e Bruxelles
VU: I titoli che scegli per le tue opere mi colpiscono molto. Land of Dreams, per esempio, capovolge il concetto di “dreamland”, un’espressione che gli stranieri che sperano di emigrare negli Stati Uniti usano spesso. E mi colpiscono anche le scene raccontate dalla prospettiva di due gruppi diversi di persone. Il rovesciamento dei punti di vista è un tema ricorrente nella tua produzione: potresti approfondire questo aspetto?
SN: Pensavo proprio ieri al fatto che tutto quello che ho realizzato, dalla serie fotografica Women of Allah (1997) al film Donne senza uomini, sia incentrato sulla dualità. E il motivo è semplice: sono un individuo definito dall’esilio, una personificazione del concetto di ibrido. Sono iraniana ma non del tutto, sono americana ma non del tutto. Mi trovo sempre in una situazione intermedia, non ho mai una collocazione precisa, e le mie opere sembrano aver accolto questa forma di contraddizione.
Le prime scene di Land of Dreams mostrano il monumentale deserto del Sud-Ovest abbinato a uno spazio industriale e claustrofobico, quello della colonia. Si tratta di un ambiente creato dall’uomo, autoritario e opprimente che somiglia a una centrale nucleare ed evoca gli uffici della burocrazia sovietica. Gli uomini e le donne al suo interno indossano camici da laboratorio bianchi e sono impegnati a ricevere, processare e analizzare i ritratti e i sogni dei cittadini americani. La colonia è una satira politica del governo iraniano, delle sue assurdità e della sua costante retorica anti-americana. Fuori dalla colonia, lo spettatore si trova di fronte uno sconfinato paesaggio naturale che lambisce una città americana, i cui abitanti svelano le proprie ansie legate a migrazione forzata, abbandono e perdita.
VU: Te l’avrei chiesto ugualmente, ma dato che ne hai appena parlato… I tuoi sogni somigliano ai tuoi film?
SN: Roja (2016) è la rappresentazione fotogramma per fotogramma di un sogno che ho fatto. Negli ultimi anni sogno quasi sempre mia madre, che vive in Iran. In Roja compare una donna iraniana in un contesto occidentale. Il suo sguardo è rivolto a est, e all’improvviso vede apparire sua madre in lontananza. Mentre corre verso di lei, scopre che la madre si è trasformata in un mostro che la allontana subito. Ho sempre pensato che questo sogno celi la paura di perdere mia madre, ormai anziana, e la possibilità che quel lutto segni il punto di rottura definitivo con il mio Paese d’origine.
VU: Anche la versione espositiva di Land of Dreams mi è sembrata molto autobiografica. Ricordo che guardando la protagonista, una studentessa d’arte che ha il compito di fotografare i cittadini statunitensi e di scoprirne i sogni, ho pensato: “Ma è Shirin”.
SN: In un certo senso è il mio alter ego. In effetti, osservando con attenzione le mie ultime opere video – Roja, Sarah (2016), Illusions and Mirrors (2013) e ora Land of Dreams –, risulta evidente che le protagoniste femminili hanno dei tratti fisici in comune (minute, occhi grandi) e sono tutte vestite di nero. Guidata dall’istinto, ho creato delle proiezioni di me stessa. È interessante notare che all’inizio realizzavo autoritratti e che ora sono le mie muse a interpretarmi.
Cambiando leggermente discorso, vorrei chiederti come ti è sembrata la presentazione di Land of Dreams. Al Broad ho esposto i due video in stanze diverse in modo che gli spettatori dovessero guardarli separatamente. Quando però ho preparato la mostra alla Gladstone Gallery di New York, ho dovuto misurarmi con le nuove restrizioni legate al Covid-19. La galleria non poteva allestire due stanze buie, e così ho deciso di montare i due video in una versione composita, in modo che potessero essere proiettati insieme, l’uno accanto all’altro, in uno spazio aperto. E dopo mi sono resa conto che quella presentazione si adattava meglio al significato dell’opera, perché faceva affiorare molti esempi di dualità: il paesaggio naturale contrapposto allo spazio industriale claustrofobico, il sogno contrapposto alla realtà, la cultura iraniana contrapposta a quella americana. Sono emerse inoltre delle coincidenze inaspettate, ed è stato davvero magico: per esempio il momento in cui su uno schermo il giudice parla di un’anziana immigrata, e lei compare nell’altro schermo, a letto. Tu hai visto entrambe le versioni: che ne pensi?
Shirin Neshat, Rapture series, 1999. Stampa ai sali d’argento. Copyright Shirin Neshat. Courtesy di Gladstone Gallery, New York e Bruxelles; e Noirmontartproduction, Parigi
VU: Sono opere incredibili anche viste singolarmente, ma credo di averle capite meglio quand’erano affiancate. Ho notato i personaggi che entravano e uscivano dai due schermi ma, soprattutto, la versione composita sottolinea la precisione con cui è calcolato il ritmo delle singole opere. Questa struttura binaria mi ha ricordato, la tua opera del 1999 che si concentra su un gruppo di donne e uno di uomini. In mostra era stata installata su due schermi posti l’uno di fronte all’altro, e il pubblico doveva girarsi una prima volta per vedere gli uomini, e una seconda per osservare la risposta delle donne, in una sorta di botta e risposta. Il pubblico era immerso nel dialogo e in un certo senso lo scandiva.
SN: Sì, sotto molti punti di vista il pubblico assume il ruolo del montatore. Con Turbulent (1998) è stato diverso2 perché il personaggio maschile, Shoja,3 e quello femminile, Sussan,4 si alternavano. In Rapture ho creato momenti di attività simultanea seguiti da pause: gli uomini guardavano le donne e viceversa finché entrambi i gruppi riprendevano l’azione.
Tornando agli opposti, Soliloquy (1999) – che tra parentesi è l’unico video in cui io sia mai comparsa – presenta dei parallelismi con Land of Dreams. È una proiezione a due canali, uno ambientato a Ovest (è stato girato a New York e Albany) e l’altro girato a Est (a Mardin, in Turchia). In Land of Dreams, la protagonista si muove tra panorami iraniani e nord-americani e, come il mio personaggio di Soliloquy, Simin si veste sempre di nero.
VU: Volevo proprio chiederti di questa costante.
SN: Pensa a Turbulent, il mio primo video: la donna è vestita di nero, mentre l’uomo indossa una camicia bianca. In Rapture accade lo stesso. In Passage (2002), il film che ho realizzato con Philip Glass, gli uomini sono silhouette nere che trasportano un cadavere nel deserto. Le donne di Roja, Sarah e Illusions and Mirrors sono vestite di nero. È così che tutti i personaggi si trasformano in semplici silhouette.
VU: In realtà pensavo più a Illusions and Mirrors, in cui anche Natalie Portman è vestita di nero. Al di là del colore, mi ha colpito la sua silhouette fluida. La sua gonna ricorda molto un velo.
SN: Un fantasma.
VU: Esatto. Immagino che sia la scelta del bianco e nero a rendere intercambiabili i tuoi personaggi. Rende le silhouette atemporali, e questo ci riporta a un argomento che abbiamo già trattato, all’universalità dei temi che affronti. Pur parlando della rivoluzione iraniana, una tua opera può riferirsi anche all’Egitto.
SN: La semplicità per me è fondamentale, ma non voglio che i personaggi si perdano nello sfondo; devono stagliarsi come silhouette, come sagome. I soggetti delle mie fotografie sono quasi sempre vestiti di nero, in modo che il colore o il taglio degli abiti non siano una distrazione. È così che possiamo concentrarci sulle espressioni del viso.
VU: È per questo che la versione espositiva di Land of Dreams è in bianco e nero?
SN: Il bianco e nero emana un rigore che mi piace molto. Sottolinea la dualità. Anche i paesaggi risultano più belli, sembrano meno credibili, come dire…
VU: Astratti.
SN: Proprio così. L’assenza del colore attenua il realismo di un concetto o di una narrazione. Abbiamo riflettuto a fondo su questo aspetto per la versione estesa di Land of Dreams, ma alla fine abbiamo optato per il colore.
VU: Trovo che il legame con l’atemporalità sia un tratto molto peculiare. Land of Dreams ci invita a esplorare un sogno surrealista, e l’unica inquadratura che ci riporta alla realtà è quella della libreria della colonia, che ci mostra la scritta in arabo sul dorso dei raccoglitori. I caratteri rievocano la realtà.
SN: Interessante. A quanto pare Land of Dreams suscita diverse interpretazioni nel pubblico. Nella versione composita tutto diventa ancora più complesso perché lo spettatore deve continuamente dedurre il rapporto che lega i due schermi. Se si concentra più a lungo su un solo schermo, per esempio, rischia di perdere il filo della narrazione.
Shirin Neshat, Looking For Oum Kulthum, 2017. Still da film. Copyright Shirin Neshat. Courtesy dell’artista; e Razor Film.
VU: Mi parleresti della scelta di usare il colore in Looking for Oum Kulthum (2017)?
SN: Non avrei potuto girarlo in bianco e nero. È un film storico che rende omaggio a Umm Kulthum, vissuta nell’epoca del Technicolor. Il film rimanda alle locandine che raffiguravano le icone egiziane di quel periodo: dive seducenti, imponenti, che sfoggiavano colori esagerati. Pensa per esempio alla produzione di Youssef Nabil5: il film parla dello stesso periodo. Umm Kulthum era una donna alla moda e non volevo privarla di quell’aspetto. E inoltre il film doveva rispettare i dettagli della storia egiziana in un periodo in cui il Paese era davvero cosmopolita. Se l’avessi trasformato in un’opera video in bianco e nero, gli egiziani non me l’avrebbero mai perdonato.
VU: Interessante. Hai appena detto “gli egiziani non me l’avrebbero mai perdonato”, le stesse parole pronunciate dalla regista nel film!
SN: Sì, il video mostra la prospettiva di una persona non originaria dell’Egitto che osa girare un film sulla maggiore icona nazionale di tutti i tempi, mostra le sue difficoltà e il suo nervosismo nell’approcciarsi al progetto. La regista non nasconde i difetti della sua opera, anzi, e nemmeno il suo rifiuto di trasformare il soggetto in un eroe. È stato un esperimento, un film nel film, ma allo stesso tempo illustra la riflessione di un’artista su un’altra. Gli egiziani si aspettavano un film biografico, che però non mi interessava sviluppare. A posteriori ne sono orgogliosa, perché dimostra con grande sincerità che è impossibile soddisfare le aspettative di tutti.
VU: E parla chiaramente delle dinamiche di potere nell’industria cinematografica. Vediamo produttori che si tirano indietro, la tensione crescente fra la regista e un attore e, all’opposto, l’affetto che nasce tra la protagonista e la regista. La sua fragilità è tangibile finché non si sottrae ai giochi di potere e dice: “Va bene così, non dev’essere perfetto”.
SN: Girare quel film ha richiesto una buona dose di coraggio e sono felice di avervi investito le mie energie. Oltre a essere un omaggio alla leggendaria Umm Kulthum, mi ha permesso di porre domande importanti sulla condizione dell’artista, soprattutto dell’artista donna, su cosa richieda questo ruolo.
VU: Mi piace che il film mostri tre fasi della vita di una donna: la giovane attrice, la regista affermata e Umm Kulthum, più anziana. In un certo senso è il contrario dell’atemporalità di cui parlavamo prima, e potremmo dire che, in un momento precedente della tua carriera, non avresti potuto realizzare questo film.
SN: Hai assolutamente ragione, e non saprei spiegare perché abbia percepito tanta pressione per quel progetto, visto che andava al di là dei miei scopi culturali e tematici, ma in ogni caso mi ha insegnato molto. Muovermi nell’intersezione tra le arti visive e il cinema è stato speciale. Non è un’esperienza che appartiene soltanto a me, l’hanno fatto tanti artisti tra cui Steve McQueen e Matthew Barney, però penso che ognuno di noi abbia trovato un proprio equilibrio.
VU: Credo che la tua pratica a metà strada fra la videoarte e i lungometraggi rispecchi il modo in cui unisci fotografia e calligrafia. Immagino che questa posizione intermedia sia complessa, ma in fondo non è proprio la sfida ad attirarti?
SN: Lavoro con medium che non ho studiato! [ride] Hai ragione, e in effetti le mie giornate in studio sono un po’ schizofreniche. Ogni giorno parlo con curatori, musei, proprietari di gallerie, produttori, attori, responsabili di festival cinematografici e via dicendo. Gestire pratiche tanto diverse è divertente e impegnativo, ma mi tiene in allerta. In questo periodo sto selezionando i compositori per il mio prossimo film ed è una specie di appuntamento al buio, dato che loro non sanno chi sono e io non so molto sul loro conto!
Shirin Neshat, Turbulent, 1998. Still da video. Installazione audiovideo a doppio canale. Film in 16mm, bianco e nero, trasferito su video. Copyright Shirin Neshat. Courtesy di Gladstone Gallery, New York e Bruxelles
VU: Dato che hai citato i compositori, lascia che ti chieda qualcosa sul suono. In Roja, che si apre su Anohni che canta,6 c’è una scena fortemente incentrata sulla voce fuori campo. Prima hai anche parlato del compositore Philip Glass. Come incorpori l’aspetto sonoro nelle tue opere?
SN: La mia esperienza musicale è cominciata con Turbulent, che ha segnato l’inizio di una collaborazione con la cantante e compositrice Sussan Deyhim. In seguito ho lavorato con Ryūichi Sakamoto e Philip Glass, decisamente più minimalisti, che mi hanno fornito una nuova prospettiva sul valore della musica nei film.
VU: Meno è meglio.
SN: Sono andata quasi oltre il minimalismo. In Sarah, Roja e Illusions and Mirrors abbiamo usato pochissima musica, sfruttando quasi esclusivamente il sound design. In Land of Dreams c’è una sola melodia, lo splendido suono del setar, uno strumento persiano, suonato da Mohsen Namjoo, il cantante-compositore iraniano che ha scritto la musica.
VU: Si direbbe che hai attraversato tre fasi: la prima con Sussan Deyhim, poi il periodo minimalista con Glass.
SN: Un’evoluzione sonora. [ride]
VU: A che fase ti sembra di essere approdata?
SN: Rispetto al passato apprezzo decisamente di più il silenzio. Quando la musica è costante, si arriva quasi a non sentirla più. L’ho imparato da Donne senza uomini, in cui abbiamo mantenuto molto silenzio. Quando è arrivata la musica travolgente di Ryūichi Sakamoto, l’ho percepita come una ricompensa.
VU: Hai parlato di diversi silenzi ma, in Donne senza uomini, la radio è estremamente presente. La protagonista è ossessionata dai notiziari, e questo aspetto mi ha fatto riflettere sulla radio come strumento di condivisione, di unione: quando si verifica un colpo di Stato, l’annuncio viene fatto via radio. E questo accade anche nel tuo film, quando l’esercito occupa la società di comunicazioni. Il suono può rendere evidente l’imporsi di una nuova struttura di potere.
SN: Uno dei miei primi video, Pulse (2001), racconta la storia di una donna il cui unico legame con il mondo esterno è rappresentato dalla radio. Non esce mai di casa. La vediamo mormorare una canzone d’amore che sente proprio alla radio: l’interazione tra la donna e la voce della cantante rende l’atmosfera della scena molto sensuale, quasi erotica. Trovo che la radio sia un mezzo potentissimo… ma di questi tempi ormai si fa tutto con il computer. [ride]
VU: Come ti capisco! Forse è giunto il momento di chiedertelo: cos’hai scritto prima, Shirin?
SN: Indovina? È una poesia di Forugh Farrokhzad!
VU: Non poteva essere altrimenti. [ride]
SN: Ed è anche il titolo della mia mostra al The Broad. Ecco cosa dice:
به آفتاب سلامی دوباره خواهم داد
Saluterò di nuovo il sole.
VU: Una conclusione perfetta.
— Traduzione dall’inglese di Aurelia Di Meo
Shirin Neshat, Artista
Shirin Neshat è un’artista visiva e regista iraniana che vive a New York. Attraverso la fotografia, il video e il film, Neshat crea narrazioni complesse che riguardano l’umanità e affrontano temi universali come il genere, lo sradicamento, l’oppressione e l’identità.
Neshat ha presentato il proprio lavoro in numerose mostre personali in tutto il mondo, sia in gallerie sia in musei, ed è stata insignita del Leone d’Oro – Primo Premio Internazionale alla 48a Biennale di Venezia (1999), del Leone d’Argento per la Migliore Regia alla 66a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (2009), The Crystal Award (2014) e il Premium Imperiale (2017), tra molti altri.
Valentine Umansky, Curatrice, Arte internazionale, Tate Modern, Londra
In qualità di curatrice, autrice e critica, Valentine Umansky ha lavorato per varie istituzioni dedicate alle arti visive e, al momento, è curatrice per l’Arte internazionale a Tate Modern, Londra. Nel 2015, dopo aver collaborato con il festival Rencontres d’Arles, ha pubblicato Duane Michals, Storyteller per Filigranes, poco prima di trasferirsi negli Stati Uniti. Da allora ha scritto per varie riviste d’arte tra cui Aperture e FOAM e ha curato mostre personali di Pamela Phatsimo Sunstrum e Saya Woolfalk, così come la mostra collettiva, “Confinement. Politics of Space and Bodies” a The Contemporary Arts Center (CAC), Cincinnati. Nel 2018 ha co-curato il LagosPhoto Festival e nel 2019 è stata responsabile della co-curatela della biennale FotoFocus 2020 e di Layers, una mappatura dell’arte nigeriana moderna e contemporanea, con Iheanyi Onwuegbucha.
1 La casa è nera racconta la vita nella colonia per lebbrosi a Baba Baghi, Iran.
2 Turbulent ha vinto un Leone d’oro alla Biennale di Venezia del 1999. È stata la prima incursione di Neshat nel mondo del cinema.
3 Shoja Azari, filmmaker iraniano e marito di Neshat.
4 Sussan Deyhim, compositrice e cantante iraniana.
5 Nabil, fotografo egiziano, realizza tableaux fotografici che ricordano fermo immagini dell’epoca d’oro del cinema del suo Paese. Ha fotografato Neshat nel 2004.
6 Anohni è più conosciuta con il nome della sua band, Antony and the Johnsons.