Le immagini residue del progresso: sul film Monelle di Diego Marcon
di Nora N. Khan
Nora N. Khan analizza il film Monelle (2017) di Diego Marcon alla luce della connessione opaca fra estetiche che da razionaliste diventano fasciste e le immagini residue evocate da tali politiche violente.
Diego Marcon, Monelle, 2017. Fotogramma. Pellicola in 35mm, animazione CGI, colore, suono, loop di 13’53’’. Courtesy dell’artista, e Ermes Ermes, Roma/Vienna. Collezione Fondazione In Between Art Film
Un interruttore scatta producendo un suono rivoltante, un flash di luce calda inonda uno spazio. Un’immagine si imprime sulla retina per un secondo, non di più. Al buio, subito dopo, il tempo di un respiro, ci ritroviamo con il fantasma—l’immagine residua—di una ragazza che dorme, il viso nascosto, il corpo sostenuto da un marmo marrone chiaro, rosato. A tratti vediamo il flash, come un’eco, in fondo a un corridoio, o riflesso da una lastra opaca. Ci ritroviamo immersi nel buio per un minuto, poi un altro. Di nuovo. A ogni flash provo una sensazione di profondo disagio: sono certa di aver visto un’altra figura nell’oscurità. Non saprei dire se quella che vedo è un’immagine residua creata dalla mia mente, un doppio inquietante, una replica scadente e imprecisa della ragazza che abbiamo appena visto. Rumore di passi. Al flash successivo, un po’ impaziente, blocco il video, e ingrandisco l’immagine più volte. Pervasa da piacere misto a paura, da orrore e titillazione, noto dei corpi costruiti, di dimensioni umane, inginocchiati davanti alle ragazze, appostati nell’ombra alle loro spalle, seduti in cima alla costola di una lunga rampa di scale, protesi verso l’inquadratura come per guardarci di proposito. Indugio sul fermo immagine e li osservo con attenzione. Sembrano paralizzati, bloccati, e di colpo non lo sono più: dopo circa sette minuti e mezzo, un uomo anziano, curvo, con un cappotto blu, gira la testa come se fosse su un perno e si fosse attivato al nostro passaggio.
Lasciamo ripartire il film, che si riempie di corpi artificiali—persone—trascinati sul pavimento. Anche nell’oscurità, in cui sono immersa per la maggior parte del tempo, percepisco suoni nauseanti: com’è ovvio immagino che tutti questi corpi vengano trascinati fuori campo da mani anonime, forze o ganci. Non li vediamo ma dobbiamo immaginare che siano lì, che siano trascinati sul pavimento e fuori dal nostro campo visivo, lungo varie traiettorie che li allontanano gli uni dagli altri, in una complessa coreografia in cui i corpi non si toccano né incrociano i rispettivi percorsi. Magari cerchiamo, con una punta di agitazione, di comprendere, almeno in parte, la natura imponente di questo spazio, un luogo del potere in cui si decide il futuro di uno stato o delle sue finanze. A dominare è il vetro, che pare correre dal pavimento al soffitto creando l’illusione dell’accesso, della trasparenza, che tutto sia in vista.
L’atrio si riempie di fantasmi e dell’acuta percezione di tutta la violenza catastrofica che non vediamo ma che sappiamo si sta consumando nell’oscurità, con il favore delle tenebre, in spazi progettati per nascondere proprio mentre mettono in mostra. Conosco questa violenza a un livello molto intimo, come ne conosco la persistenza inquietante, le immagini residue, i postumi: quella che potremmo definire la sua scia. Seguo questa nave, nuoto nella sua scia; a tutti capita di nuotare nella sua scia, di tanto in tanto, anche se non ne parliamo. Sublimiamo, cerchiamo di dimenticare ciò a cui nuotiamo dietro, di ignorare le immagini residue in cui ci avvolgiamo come fossero mantelli.
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MONELLE (2017) DI DIEGO MARCON CI OFFRE LA DELIZIOSA OPPORTUNITÀ DI RIFLETTERE SUI NOSTRI RAPPORTI INTIMI E PERSONALI CON LA SIMULAZIONE E IL POTERE, CON IL VIRTUALE E LA VIOLENZA, CON TUTTI I SACRIFICI FATTI IN NOME DEL PROGRESSO, CON TUTTI GLI AVATAR E LE RAPPRESENTAZIONI IN CUI SCIVOLIAMO E DI CUI CI LIBERIAMO OGNI GIORNO.
Monelle (2017) di Diego Marcon ci offre la deliziosa opportunità di riflettere sui nostri rapporti intimi e personali con la simulazione e il potere, con il virtuale e la violenza, con tutti i sacrifici fatti in nome del progresso, con tutti gli avatar e le rappresentazioni in cui scivoliamo e di cui ci liberiamo ogni giorno. Di fatto, trovarci quasi sempre nell’oscurità—interrotta solo da brevi momenti, prima reali e poi virtuali (e incorporei, ma probabilmente non meno reali del reale), in cui siamo di fronte a situazioni nelle quali non riusciamo a distinguere l’artificio dal reale—è una potente metafora estesa del periodo che stiamo vivendo.
Diego Marcon, Monelle, 2017. Fotogramma. Pellicola in 35mm, animazione CGI, colore, suono, loop di 13’53’’. Courtesy dell’artista, e Ermes Ermes, Roma/Vienna. Collezione Fondazione In Between Art Film
Le spaventose bambole dall’aspetto e dalle dimensioni umani, le figure dell’artificio, gli spettri, gli avatar a un passo dall’attivazione, rimandano alla lunga storia della ricerca del progresso tecnologico a ogni costo. Siamo invitati ad attraversare le immagini residue di questa fantasia pervasiva e vincolante, l’ideologia sempre seducente del Grande Futuro che si ripete e replica in ogni epoca, con nota aggressività. Potremmo riflettere sul desiderio antichissimo—dagli automi di Leonardo da Vinci agli assistenti vocali dotati di IA che usiamo oggi—di esseri dalla forma umanoide che costruiamo per rispecchiare, sostenere e aiutare il percorso dell’umanità all’interno di un grandioso futuro tecnologico e utopico. Lo scopo di tante visioni fantascientifiche che hanno influenzato profondamente la direzione del design della tecnologia e della computazione era in apparenza la creazione di una replica perfetta dell’intelligenza umana, programmabile affinché fosse priva di traumi e preconcetti storici, e libera da sentimenti e impulsi “superflui”. Il concetto di superfluo varia in base all’epoca e alla cultura: può trattarsi di saperi indigeni che mal si accordano al capitalismo estrattivo e che anzi lo rifiutano; può trattarsi di strutture sociali intergenerazionali che tramandano conoscenze incarnate attraverso esempi e storie; o può trattarsi di impulsi meno computabili, come la compassione, l’attenzione, il sacrificio o l’amore verso gli sconosciuti, o ancora l’idea che il proprio benessere sia indissolubilmente legato a quello altrui—cose che il tecnocapitalismo considera incomprensibili, eresie.
“Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità”: così si apre il Manifesto del Futurismo (1909) di Filippo Tommaso Marinetti, che ha inaugurato un’epoca di peana—tanto notevoli quanto spaventosi—alla violenza, all’industria e alla dominazione per bombardamento. Gli attuali eredi del razionalismo, della scienza e della computazione adottano toni simili. Spesso si rivelano tra i peggiori sostenitori del conservatorismo sociale che degnino della propria presenza il dibattito pubblico del XXI secolo. E più importanti delle loro parole sono i loro progetti; il mondo della computazione planetaria, all’insegna dell’apprendimento profondo, incarna le stesse visioni di progresso spietato che non guarda in faccia nessuno, tantomeno i contesti locali o i precedenti storici. Al cuore di questo progresso tecnologico puro, in cui esiste una soluzione tecnica a tutte le problematiche sociali, troviamo il controllo assoluto: ottenuto grazie alla sorveglianza di massa, al controllo predittiva e all’analisi di decenni di dati guidata dall’apprendimento automatico.
Diego Marcon, Monelle, 2017. Sviluppo CGI; Casa del Fascio (dettaglio d’interno); modello 3D da fotogrammetria; screengrab. Courtesy dell’artista
Ciò equivale a dire che il passato, come ha scritto William Faulkner, “non è nemmeno passato”—e forse non è mai stato neppure compreso appieno. Accogliamo nel presente il futurismo di Marinetti e l’eredità del razionalismo. Se i dibattiti e le teorie sui legami tra il futurismo e le ideologie contemporanee del design tecnopositivista sono un ambito ormai ampiamente esplorato, poco si parla della scia di queste fantasie totalizzanti del futuro, dell’immagine residua di questo estatico sognare tecnologico.1 Cosa succede dopo che i campioni della dominazione industriale, agguerrita e sfacciata, scappano, volano su Marte, vengono deposti o ritenuti colpevoli di frode? Come sopravviviamo nella scia dei loro sogni di potere?
Non abbiamo dimenticato che il paradigma tecnologico dominante della nostra epoca ha avuto legami diretti con programmi e ricerche governativi riguardanti la cibernetica, che hanno facilitato la raccolta dei dati e delle informazioni utili al Web 2.0 e la diffusione globale della tecnocrazia.2 Le radici di questa “società del controllo” computazionale affondano nelle Macy Conferences, che miravano a capire e schematizzare il funzionamento della mente umana. I partecipanti sono noti, e spaziano da Norbert Wiener a Gregory Bateson, da John von Neumann e Claude Shannon a Margaret Mead. Psicologi, statistici, ingegneri informatici e matematici riuniti per affinare la cibernetica, intesa come un sistema per controllare la comunicazione nelle macchine—e negli animali. Si parla meno, invece, di quanti partecipanti avrebbero affinato le strategie militaristiche del controllo psicologico all’interno di progetti che, sovvenzionati dall’esercito e dalla CIA, miravano a manipolazione, tecniche di interrogatorio e persuasione emotiva. Oggi l’apparente trasparenza della gestione (o innovazione) tecnologica—grazie ai libri bianchi e agli archivi societari resi pubblici, e grazie a errori enormi commessi su un palco internazionale—oscura la presenza di algoritmi black box e di protezioni gnostiche dei saperi proprietari, fondati sull’apprendimento profondo.
Non dimentichiamo che la scatola di vetro nasconde, proprio mentre mette in mostra.
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Diego Marcon, Monelle, 2017. Sviluppo CGI; la donna trascinata; modello 3D model con anteprima render e controlli per l’animazione (rig); screengrab. Courtesy dell’artista
Guardo il film in momenti diversi: al mattino presto, la sera tardi, sempre in una stanza buia. Ogni volta lo scatto dell’interruttore riecheggia a fondo nel mio corpo. Un’amica appena conosciuta mi racconta com’è stato per lei vedere Monelle a Roma, al Cinema dei Piccoli. Sottolinea come, nel buio della sala, il suono creasse un effetto di ripugnanza in tutto il corpo, una sensazione di terrore puro, concentrato e distillato in un’esperienza psicosomatica totale. Immagino che anche la sala del cinema si riempia di contorni, immagini residue, immagino che la rimozione critica dello schermo e la finzione assumano contorni sempre più sfumati e incerti.
Nemmeno il silenzio è vero silenzio; udiamo quello che si definisce “suono ambientale” (room tone), o “suono del silenzio”. Ascoltando con attenzione, naturalmente, scopriamo che il suono del silenzio non è silenzio bensì un amalgama di suoni molto attutiti, dal volume bassissimo. Sospettiamo che fuori dall’edificio la vita scorra, magari c’è qualche aereo di passaggio o il rumore del traffico. Nel suono ambientale avvertiamo graffi e poi corpi trascinati intenzionalmente e poi lievi rumori liquidi, una sorta di rigagnolo umido che sgocciola nell’aria, pochi secondi prima che l’uomo anziano giri la testa. L’atmosfera si fa più densa, accelera un evento sinistro dopo l’altro. Queste interruzioni quasi impercettibili di sgocciolii e trascinamenti creano uno strappo nel presunto tessuto calmo e ininterrotto del suono ambientale. In isolamento, come mostra Lawrence Abu Hamdan nelle sue opere sulle prigioni, i carcerati allenano l’udito a cogliere il rumore dei passi, contano i secondi fra un passo e l’altro e calcolano il tempo necessario ad avvicinarsi, imparano a prevedere il prossimo incontro. Si preparano.
Diego Marcon, Monelle, 2017. Sviluppo delle riprese; Casa del Fascio; piano terra; mappa delle inquadrature con le posizioni della cinepresa nello spazio. Courtesy dell’artista
Scivoliamo lungo dei binari, come fossimo su una giostra in un parco di “divertimenti” fuori controllo; gli ambienti possiedono l’estetica e l’aura di un museo di storia naturale del futuro (a sua volta abbandonato) che illustra i rapporti di potere del XX e del XXI secolo. A guidarci in questo futuro è un occhio automatizzato, una telecamera montata su un carrello, che scorre anch’essa su binari. L’impressione è che la telecamera sia programmata per fermarsi ogni volta di fronte a un nuovo sottoposto dello stato messo sotto tutela, e al custode, compagno, sorvegliante non umano e inquietante che gli è stato assegnato. L’effetto del movimento nell’atrio, che si ripete in loop, è di cattura costante, cattura a cui le figure non possono sottrarsi poiché sembrano incapaci di reagire ai flash, o forse ne sono colte alla sprovvista: hanno gli occhi sgranati in segno di shock, curiosità o forse consapevolezza.
In alcuni momenti—se non in qualche fermo immagine o esaminando i fotogrammi tratti dal film—ci chiediamo persino se le ragazze addormentate siano reali. Sono sicura che lo siano perché sono irragionevolmente sicura di saper distinguere la carne vera da quella sintetica. In questo caso saper distinguere risulta fondamentale a livello esistenziale, una necessità evoluzionistica. Da accolita e critica della cultura visiva incentrata sul gaming quale sono, in cui i confini dell’iperreale vengono costantemente sfidati, devo essere capace di distinguere fra il reale e l’artificiale, benché ritenga che anche la nostra cultura, la nostra lingua, i nostri usi e costumi siano artifici.
Diego Marcon, Monelle, 2017. Fotogramma. Pellicola in 35mm, animazione CGI, colore, suono, loop di 13’53’’. Courtesy dell’artista, e Ermes Ermes, Roma/Vienna. Collezione Fondazione In Between Art Film
Smetto di chiedermi—la domanda è meno stimolante—se un corpo sia vero oppure no, per concentrarmi sui gesti che ci fanno credere alla realtà temporanea di un corpo, alla sua umanità o ai suoi aspetti umani quanto basta per coinvolgerci. E la capacità di padroneggiare tali gesti, con il montaggio, con i software, è oggi una fonte inquietante di potere. Ci viene chiesto di prestare attenzione: le ragazze assumono posizioni vulnerabili in tutto il film; il collo e la nuca sono scoperti, in piena vista. Ci viene chiesto di adottare la prospettiva di una persona che le segue, che sta per sorprenderle. Non vediamo i loro volti, e ci viene negato quell’ultimo contatto. Aspetto ancora più importante, le ragazze non sono protette, e la disposizione dei loro corpi suscita automaticamente una cascata di sensazioni: preoccupazione, timore, cura, un istinto di protezione, forse il desiderio di tornare innocenti, forse una sorta di identificazione.
È una condizione di vulnerabilità tradotta in una performance molto precisa. I codici e i gesti che trasmettono il concetto di vulnerabilità al nostro cervello rettiliano possono essere criptati e appresi dallo stato, sia esso politico o tecnologico. Oggi questi gesti e azioni imitati persistono in una nuova generazione di coreografie perverse. Le pubblicità sui social media attingono a dati noti sull’impatto emotivo dei gesti temporizzati e di precise espressioni facciali—provengono dalle prime teorie della cibernetica volte a collegare con una sincronia perfetta i gesti e gli impulsi neurali di esseri umani e animali alla macchina. I leader e i ministri dell’informazione imitano e descrivono possibili scenari futuri di dolore, desolazione, anarchia, oppure futuri di prigionia mentale causata dal sopravvento di un’ideologia su un’altra. Sul palco, indicano la devastazione a gesti; spingono il pubblico rapito a immaginare un futuro in cui vengono ripristinati orgoglio nazionale, progresso, benessere e pace. In alcuni frangenti dipingono un’immagine in cui il pubblico è vulnerabile come le ragazze addormentate del film.
Diego Marcon, Monelle, 2017. Sviluppo CGI; il ragazzo; modello 3D with wireframe e controlli per l’animazione (rig); screengrab. Courtesy dell’artista
Ed è qui, all’altro estremo della vulnerabilità, che possiamo riflettere sul potere di questo luogo. All’inizio assimiliamo la scala e le sfumature del marmo color panna e marrone chiaro, i termosifoni verniciati di grigio, le colonne, la luce lampeggiante che getta un pallore malaticcio su ogni cosa. In Terragni in Vanishing Point, Luis Fernández-Galiano analizza le modalità con cui l’edificio progettato da Giuseppe Terragni, considerato l’apice del Razionalismo, è stato privato nel tempo di questa storia, che è stata accantonata, delicatamente rimossa dagli archivi.3 Abbiamo visto tutti le immagini dei raduni, essi stessi un’immagine residua dello spazio che circonda la Casa del Fascio. Mentre a livello globale artisti, pensatori e teorici affrontano, spaziando fra arte, design e letteratura, i legami sottili, quasi invisibili ma pur sempre presenti, tra il razionalismo e i vangeli del progresso, del modernismo e del fascismo, io mi scopro a soffermarmi sull’implicito invisibile.
Linee pulite e ordine: nessuna tolleranza per il disordine, per qualsiasi elemento irrisolto e barocco, per geometrie alternative, per pattern frattali nell’idea e nella forma; tutto deve completare e calcolare, e ciò che non lo fa non è razionale. Simmetria rigorosa: avversione per l’ondulato e i pesi discontinui, per l’irregolare (e definire qualcosa come irregolare o non in equilibrio rientra nell’opera del razionalismo, ossia creare una comprensione di base nel linguaggio). Vetro, per la trasparenza: l’atrio e le finestre che arrivano al soffitto (realizzate con il vetro più cristallino che esista) danno un’impressione di accesso, di contatto diretto con il potere. Tutto è esposto, inclusi i significati secondari e terziari, ciò che è nascosto, e un’indubbia sensazione di paura che continua a crescere.
Diego Marcon, Monelle, 2017. Backstage; setup; veduta frontale della Casa del Fascio; foto: Marco Cappelletti con DSLstudio. Courtesy dell’artista
Mano a mano che scivoliamo attraverso la Casa del Fascio iniziamo a comprendere sempre di più il gesto estetico del fascismo, termine ormai usato con frequenza scioccante (e talvolta con leggerezza) nei violenti dibattiti online e in infinite permutazioni. Più significativo è il suo uso come abbreviazione, come segno di brutalità, tecnocrazia, violenza burocratica e autoritarismo in ogni sua forma. E forse l’uso del termine deriva dalla mancanza di alternative lessicali per i metodi, le tattiche e le strategie precisi con cui oggi il potere si manifesta. Come descrivere l’aspetto che da razionalista diventa fascista dei modelli computazionali che attuano la propria ideologia attraverso lo spazio virtuale, o attraverso modelli statistici abbozzati che però costruiscono la realtà, o attraverso l’arena del dibattito pubblico? Monelle ci consente di arrivare al cuore del termine, alla sua predisposizione retorica, allo stile che ha sedotto, al richiamo cromato del progresso tecnologico presente nel manifesto del Futurismo.
COME DESCRIVERE L’ASPETTO CHE DA RAZIONALISTA DIVENTA FASCISTA DEI MODELLI COMPUTAZIONALI CHE ATTUANO LA PROPRIA IDEOLOGIA ATTRAVERSO LO SPAZIO VIRTUALE, O ATTRAVERSO MODELLI STATISTICI ABBOZZATI CHE PERÒ COSTRUISCONO LA REALTÀ, O ATTRAVERSO L’ARENA DEL DIBATTITO PUBBLICO? MONELLE CI CONSENTE DI ARRIVARE AL CUORE DEL TERMINE, ALLA SUA PREDISPOSIZIONE RETORICA, ALLO STILE CHE HA SEDOTTO, AL RICHIAMO CROMATO DEL PROGRESSO TECNOLOGICO PRESENTE NEL MANIFESTO DEL FUTURISMO.
Osserviamo le figure in questo gioco di simulazione, mentre vengono sviluppati progetti per il rinnovamento dell’edificio, progetti per trasformarlo in un museo che indaghi i legami critici fra architettura e un passato con cui è difficile misurarsi. Naturalmente potrebbero esserci, e ci saranno, dibattiti fondati su ricerche approfondite, delicati e ben inquadrati sull’epoca e sul ruolo dell’edificio. Ma l’opera di Marcon chiede, a prescindere dal retroterra politico-culturale, di riflettere sulle modalità con cui i luoghi da cui proveniamo non siano riusciti a identificare l’ideologia che oggi si annida sulle nostre rive, anche se in forma diversa. La Casa del Fascio diventa un ambiente carico di significato e uno spazio metaforico, una raffigurazione della letterale casa di vetro del modernismo e degli echi di “apertura e trasparenza” che risuonano nel dibattito tecnologico odierno. La trasparenza è ancora considerata sinonimo di chiarezza, un legame e un’impressione diretti di inclusione in una gerarchia di potere, dallo stato al popolo, o dal re al popolo, o dallo stimato magnate-pioniere al popolo. Ci viene chiesto di porci queste domande: cosa si nasconde nella trasparenza? Come vengono simulate, oggi, trasparenza e apertura? Come possiamo guardare al di là di quello che ci viene presentato, per scorgere ciò che si trova oltre, qualcosa i cui contorni risultano visibili solo prima che la luce svanisca? Come veniamo addestrati a eseguire gesti e performance di adeguatezza, bontà, progresso, autocontrollo?
Oggi la politica si svolge in tempo reale davanti ai nostri occhi attraverso azioni coordinate e una copertura mediatica costante. Il potere si dispiega a livello tanto retorico quanto visivo, su un palco creato da televisione, blogger, cabine di montaggio. La trasparenza è senza dubbio simulata, al pari della neutralità. I musei e le università, le società di software e i principali accoliti della tecnologia sostengono di costruire “spazi neutrali”, i cui detrattori accusano a gran voce di essere tutto fuorché neutrali. Sostenere di essere uno spazio neutrale significa ignorare completamente le modalità con cui le politiche vengono perseguite e replicate nella memoria, e si trovino nelle impostazioni predefinite di uno spazio architettonico: la Casa del Fascio racchiude infatti la propria politica nelle linee e nelle simmetrie.
Nel riflettere sui contorni della Casa del Fascio in questo film disturbante, e sulle vite emotive dei corpi veri e animati che vengono trascinati, tirati, lasciati cadere e manovrati come marionette, siamo spinti a pensare alle immagini residue del progresso e del controllo con cui conviviamo. Le immagini residue culturali dei deliranti sogni di potere del passato restano impresse. Di più, influenzano le riflessioni contemporanee che divampano e minacciano di ridurci a esseri simulati, animati soltanto per incanalare ideologie di progresso e autorità, di ordine e di un sistema perfetto, buono e giusto.
— Traduzione dall’inglese di Aurelia Di Meo
Diego Marcon è un artista visivo che lavora principalmente con film e video. Il suo ultimo film, The Parents’ Room (2021), è stato presentato in anteprima al 74esimo Festival di Cannes, nella selezione ufficiale per la sezione Directors’ Fortnight. Le sue opere sono state esposte in mostre personali e collettive in istituzioni come il Museo MADRE, Napoli; Museo Boijmans Van Beuningen, Rotterdam; Fondazione Prada, Milano; Institute of Contemporary Arts Singapore; La Triennale di Milano; Museo MAXXI, Roma; MACRO, Roma; Museion, Bolzano; PAC – Padiglione Arte Contemporanea, Milano; Centre international d’art et du paysage, Vassivière; Fondation d’entreprise Ricard, Parigi; e Artspace, Auckland, Nuova Zelanda. I suoi film sono stati proiettati in festival cinematografici tra cui IFFR – International Rotterdam Film Festival; Cinéma du Réel, Parigi; Courtisane, Gent; BFI, Londra; FID Marsiglia e Doclisboa. Nel 2018 Marcon ha vinto il Premio Scultura Fondazione Hernaux e il Premio MAXXI Bulgari.
Nora N. Khan, Scrittrice, Editor, e Curatrice
Nora N. Khan è editor, curatrice e scrittrice di critica sulla cultura visiva digitale e sulla filosofia della tecnologia contemporanea. La sua ricerca si concentra su arte, musica e letteratura realizzata con e per software, machine learning e intelligenza artificiale. La sua pratica si estende a un’ampia gamma di collaborazioni artistiche, producendo oggetti come sceneggiature, libretti e una piccola casa. I libri che ha scritto sono Seeing, Naming, Knowing (Brooklyn Rail, 2019) sulla logica della visione artificiale, e Fear Indexing the X-Files (Primary Information), pubblicato in collaborazione con Steven Warwick. Di prossima uscita sono The Artificial and the Real (Art Metropole) su simulazione e mappatura semantica, e un libro sulle conseguenze dell’intelligenza artificiale sulla critica d’arte (Lund Humphries). Come curatrice di “Manual Override” presso The Shed, New York, nel 2020, ha lavorato a stretto contatto con Sondra Perry, Morehshin Allahyari e Lynn Hershman Leeson su nuove commissioni, in una mostra che presentava anche importanti opere di Simon Fujiwara e Martine Syms. Pubblica frequentemente prosa e critica, in saggi per pubblicazioni come Artforum e Art in America. Attualmente è redattrice di Topical Cream, concentrandosi sul supporto di persone GNC e BIPOC che si occupando di critica, e della rivista HOLO, ed è redattrice di lunga data (2014-) presso Rhizome. Dal 2018-2021 è stata Professoressa alla Rhode Island School of Design, in Digital + Media, dove ha insegnato teoria critica e ricerca artistica, scrittura sperimentale per artisti e designer e critica della tecnologica.
1 Benché in questa sede non ci sia spazio per una panoramica esaustiva delle radici del tecnopositivismo, del tecno-soluzionismo e delle relative ideologie del tecno-fatalismo odierni, due saggi in particolare hanno influenzato le mie riflessioni: From Counterculture to Cyberculture (2008) di Fred Turner e il notevole Connessione: storia femminile di Internet (2018) di Claire Evans. Entrambi testimoniano gli esiti di una tale fiducia nell’inevitabilità del progresso tecnologico che si è espressa attraverso le teorie di controllo, organizzazione e sistemicità cibernetici risalenti a metà del secolo scorso. Il libro di Evans propone alternative alla narrazione eroica che ha guidato la maggior parte delle storie della tecnologia. Il breve e scorrevole articolo di Rose Eveleth uscito su Wired sui legami tra futurismo e fascismo è un’ottima introduzione al discorso: https://www.wired.com/story/italy-futurist-movement-techno-utopians/.
2 E naturalmente molti contemporanei lavorano alla costruzione di paradigmi tecnologici che incarnano la Teoria della finzione come borsa (Carrier Bag Theory of Fiction, 1986) di Ursula K. Le Guin, in cui il futuro dell’eroe, che ha domato la natura grazie agli strumenti imperialisti della scienza e alla techne, viene negato. Tanti ricercano ideologie e valori nelle descrizioni che Le Guin fa di semplici ritrovi, decentramento, etica della conservazione, lavoro della memoria, sostenibilità e cura del contesto locale.
3 Luis Fernández-Galiano, “Terragni in Vanishing Point”, in Arquitectura Viva, consultabile all’indirizzo: https://arquitecturaviva.com/articles/terragni-en-punto-de-fuga-0. L’ottimo saggio sugli interni di David Rifkind, Furnishing the Fascist interior: Giuseppe Terragni, Mario Radice and the Casa del Fascio, è consultabile all’indirizzo: http://davidrifkind.org/fiu/research_files/arq%20article%202006.pdf
Diego Marcon è un artista visivo che lavora principalmente con film e video. Il suo ultimo film, The Parents’ Room (2021), è stato presentato in anteprima al 74esimo Festival di Cannes, nella selezione ufficiale per la sezione Directors’ Fortnight. Le sue opere sono state esposte in mostre personali e collettive in istituzioni come il Museo MADRE, Napoli; Museo Boijmans Van Beuningen, Rotterdam; Fondazione Prada, Milano; Institute of Contemporary Arts Singapore; La Triennale di Milano; Museo MAXXI, Roma; MACRO, Roma; Museion, Bolzano; PAC – Padiglione Arte Contemporanea, Milano; Centre international d’art et du paysage, Vassivière; Fondation d’entreprise Ricard, Parigi; e Artspace, Auckland, Nuova Zelanda. I suoi film sono stati proiettati in festival cinematografici tra cui IFFR – International Rotterdam Film Festival; Cinéma du Réel, Parigi; Courtisane, Gent; BFI, Londra; FID Marsiglia e Doclisboa. Nel 2018 Marcon ha vinto il Premio Scultura Fondazione Hernaux e il Premio MAXXI Bulgari.
Nora N. Khan, Scrittrice, Editor, e Curatrice
Nora N. Khan è editor, curatrice e scrittrice di critica sulla cultura visiva digitale e sulla filosofia della tecnologia contemporanea. La sua ricerca si concentra su arte, musica e letteratura realizzata con e per software, machine learning e intelligenza artificiale. La sua pratica si estende a un’ampia gamma di collaborazioni artistiche, producendo oggetti come sceneggiature, libretti e una piccola casa. I libri che ha scritto sono Seeing, Naming, Knowing (Brooklyn Rail, 2019) sulla logica della visione artificiale, e Fear Indexing the X-Files (Primary Information), pubblicato in collaborazione con Steven Warwick. Di prossima uscita sono The Artificial and the Real (Art Metropole) su simulazione e mappatura semantica, e un libro sulle conseguenze dell’intelligenza artificiale sulla critica d’arte (Lund Humphries). Come curatrice di “Manual Override” presso The Shed, New York, nel 2020, ha lavorato a stretto contatto con Sondra Perry, Morehshin Allahyari e Lynn Hershman Leeson su nuove commissioni, in una mostra che presentava anche importanti opere di Simon Fujiwara e Martine Syms. Pubblica frequentemente prosa e critica, in saggi per pubblicazioni come Artforum e Art in America. Attualmente è redattrice di Topical Cream, concentrandosi sul supporto di persone GNC e BIPOC che si occupando di critica, e della rivista HOLO, ed è redattrice di lunga data (2014-) presso Rhizome. Dal 2018-2021 è stata Professoressa alla Rhode Island School of Design, in Digital + Media, dove ha insegnato teoria critica e ricerca artistica, scrittura sperimentale per artisti e designer e critica della tecnologica.
1 Benché in questa sede non ci sia spazio per una panoramica esaustiva delle radici del tecnopositivismo, del tecno-soluzionismo e delle relative ideologie del tecno-fatalismo odierni, due saggi in particolare hanno influenzato le mie riflessioni: From Counterculture to Cyberculture (2008) di Fred Turner e il notevole Connessione: storia femminile di Internet (2018) di Claire Evans. Entrambi testimoniano gli esiti di una tale fiducia nell’inevitabilità del progresso tecnologico che si è espressa attraverso le teorie di controllo, organizzazione e sistemicità cibernetici risalenti a metà del secolo scorso. Il libro di Evans propone alternative alla narrazione eroica che ha guidato la maggior parte delle storie della tecnologia. Il breve e scorrevole articolo di Rose Eveleth uscito su Wired sui legami tra futurismo e fascismo è un’ottima introduzione al discorso: https://www.wired.com/story/italy-futurist-movement-techno-utopians/.
2 E naturalmente molti contemporanei lavorano alla costruzione di paradigmi tecnologici che incarnano la Teoria della finzione come borsa (Carrier Bag Theory of Fiction, 1986) di Ursula K. Le Guin, in cui il futuro dell’eroe, che ha domato la natura grazie agli strumenti imperialisti della scienza e alla techne, viene negato. Tanti ricercano ideologie e valori nelle descrizioni che Le Guin fa di semplici ritrovi, decentramento, etica della conservazione, lavoro della memoria, sostenibilità e cura del contesto locale.
3 Luis Fernández-Galiano, “Terragni in Vanishing Point”, in Arquitectura Viva, consultabile all’indirizzo: https://arquitecturaviva.com/articles/terragni-en-punto-de-fuga-0. L’ottimo saggio sugli interni di David Rifkind, Furnishing the Fascist interior: Giuseppe Terragni, Mario Radice and the Casa del Fascio, è consultabile all’indirizzo: http://davidrifkind.org/fiu/research_files/arq%20article%202006.pdf