Mondi in trasformazione
Don’t Look at the Finger (2017) di Hetain Patel
Di Hammad Nasar
Hammad Nasar analizza il film Don’t Look at the Finger (2017) di Hetain Patel e ripercorre i tropi culturali che, negli anni, hanno influenzato il linguaggio visivo attraverso cui l’artista ha affrontato la questione del convivere con la diversità, dall’Uomo Ragno alla poetica di Bruce Nauman.
Hetain Patel, Don’t Look at the Finger, 2017. Video monocanale HD, suono stereo. Courtesy dell’artista, e Chatterjee & Lal, Mumbai. Collezione Fondazione In Between Art Film
Don’t Look at the Finger (2017) di Hetain Patel segue un combattimento prematrimoniale stilizzato fra un uomo e una donna. Il film è stato girato in una chiesa londinese, ma la cerimonia nuziale cinematografica cui assistiamo ha pochissimi elementi in comune con la tradizione cristiana: ciò che vediamo è uno spettacolo bizzarro e cosmopolita. L’impressione è che i costumi provengano dall’Africa occidentale, le coreografie da Hong Kong e la colonna sonora da un luogo imprecisato a metà strada. La centralità di questi tre aspetti (costumi, coreografia e musica) li eleva allo statuto di personaggi, anziché semplici elementi accessori. Ed è la loro triangolazione a fornire un arco narrativo anche a chi non conosce la lingua dei segni britannica, perché nel film non viene detta alcuna parola, ogni comunicazione avviene a livello fisico e non verbale: persino i voti nuziali sono pronunciati nella lingua dei segni.
Non è chiaro se i membri del cast interpretino personaggi non udenti o siano invece impegnati in un rituale muto. La decisione di Patel di non ricorrere ai sottotitoli capovolge i benefici di cui in genere godono i corpi abili, e chi è esperto della lingua dei segni rimane avvantaggiato rispetto a chi non lo è. La maggior parte del pubblico udente può però ascoltare l’incalzante colonna sonora realizzata da Amy May, che evoca la grandiosità epica di Hans Zimmer e l’atmosfera del successo crossover La tigre e il dragone (2000) di Ang Lee. Il film non tenta in alcun modo di mediare fra questi due pubblici, cui offre esperienze diverse senza presentare false equivalenze.
L’esitazione e l’agitazione con cui questa coppia giovane e fotogenica si avvicina alla sacerdotessa che presiede la cerimonia ricordano i matrimoni combinati di innumerevoli film di Bollywood. La disposizione con cui le rispettive famiglie sostengono gli sposi rimanda a un altro tropo culturale tipico dell’Asia meridionale, ossia l’idea del matrimonio come unione di due famiglie. Il cast composto esclusivamente da attori Neri, tuttavia, non offre nessun rimando scontato all’eredità culturale dell’artista, e la stessa reticenza è riservata agli stereotipi di genere. Il rituale della coppia, una sorta di botta e risposta, mescola kung fu e linguaggio dei segni, in una serie di scambi esteticamente gradevoli che scivolano fluidi da un uomo bello e talvolta vulnerabile a una donna i cui gesti emanano forza, in un rifiuto di qualsiasi aspettativa di genere. Siamo invitati a entrare in un mondo diverso.
IL RITUALE DELLA COPPIA, UNA SORTA DI BOTTA E RISPOSTA, MESCOLA KUNG FU E LINGUAGGIO DEI SEGNI, IN UNA SERIE DI SCAMBI ESTETICAMENTE GRADEVOLI CHE SCIVOLANO FLUIDI DA UN UOMO BELLO E TALVOLTA VULNERABILE A UNA DONNA I CUI GESTI EMANANO FORZA, IN UN RIFIUTO DI QUALSIASI ASPETTATIVA DI GENERE. SIAMO INVITATI A ENTRARE IN UN MONDO DIVERSO.
Hetain Patel, Don’t Look at the Finger, 2017. Video monocanale HD, suono stereo. Courtesy dell’artista, e Chatterjee & Lal, Mumbai. Collezione Fondazione In Between Art Film
Il titolo Don’t Look at the Finger (“Non ti concentrare sul dito”) si ispira a una battuta di Bruce Lee ne I 3 dell’operazione Drago (1973), pietra miliare dei film dedicati alle arti marziali, in cui Lee ci ordina di non guardare il dito se non vogliamo perderci ciò che esso indica. La pura ammirazione che Patel prova per Lee non si limita ai suoi moniti (anche Be Like Water [“Sii acqua”, 2012], una performance di Patel diventata un TED Talk, deve il titolo a una massima di Lee) né al valore simbolico che l’attore d’azione asiatico ha avuto agli occhi di un bambino Marrone cresciuto in una cittadina operaia e prevalentemente bianca dell’Inghilterra del nord. L’artista sembra ispirarsi a Lee anche per quanto riguarda il suo approccio al cinema, in cui la linfa vitale dell’opera deriva più dal corpo in movimento che dalla sceneggiatura. Don’t Look at the Finger è forse l’invito più generoso con cui Patel chiede al pubblico di entrare nel dojo e di occupare lo spazio fra l’azione e l’aspettativa in cui lui vuole giocare, lo stesso spazio da cui Lee ci mette invece in guardia.
Le dimensioni dello schermo e il design immersivo del suono ci permettono di vedere i personaggi a grandezza reale e di percepire il film a un livello viscerale: siamo immersi nel suo mondo immaginario. Gli amanti del lavoro di Patel sapranno riconoscere i semi da cui è sbocciato Don’t Look at the Finger. Le cerimonie matrimoniali eccentriche, per esempio, ricorrono in diverse opere. Nella proiezione video a due canali The Jump (“Il salto”, 2015), uno schermo ci mostra il salotto della casa della nonna dell’artista: qui la sua famiglia allargata, vestita come per partecipare a un matrimonio, lo osserva spiccare un salto dal bracciolo del divano, in uno slow motion estremamente accentuato, mentre indossa un costume da Uomo Ragno realizzato con le sue mani. L’altro schermo presenta invece la versione epica e hollywoodiana dello stesso gesto: il salto si staglia su uno sfondo buio e invaso dal fumo, costituendo uno yang oscuro rispetto allo yin quasi comico rappresentato dalla famiglia riunita per la cerimonia. In un’opera precedente, The First Dance (“Il primo ballo”, 2012), il novello sposo Patel ricostruisce una scena tratta da La tigre e il dragone: l’artista, che al posto della divisa da kung fu indossa lo sherwani di nozze, si trova davanti alla moglie (la drammaturga e curatrice per la danza e le arti performative Eva Martinez), vestita con lo stesso abito da sposa indiano che i più attenti ricorderanno di aver già visto in The Jump.
Hetain Patel, The Jump, 2015. Video a doppio canale HD, suono stereo. Courtesy dell’artista, e Chatterjee & Lal, Mumbai. Collezione Fondazione In Between Art Film
I costumi disegnati da Holly Waddington per Don’t Look at the Finger si ispirano all’abbigliamento dei samurai giapponesi e alla moda d’avanguardia, e a livello visivo rimandano alle vicende coloniali narrate dai tessuti Wax africani. La loro funzionalità – che grazie a una serie di pieghe e modifiche permette di trasformare un’uniforme da combattimento in un abito da cerimonia – deriva però dal franchise nippo-americano Transformers, che racconta la storia di robot autonomi e senzienti capaci di assumere diverse forme, tra cui quelle di mezzi di trasporto e animali. Anche in questo caso, come in quello delle cerimonie nuziali, troviamo dei precedenti nella produzione di Patel. In Fiesta Transformer (2013), l’artista ha collaborato con il padre (operaio automobilistico) e il fratello (ingegnere) per trasformare una semplice Ford Fiesta del 1988, lo stesso modello dalla sua prima auto, in un’entità accucciata dalle sembianze umane. Il potenziale trasformativo della figura rannicchiata è una metafora che accomuna l’Uomo Ragno e la Fiesta Transformer di Patel.
Patel scoprì l’arte negli anni Novanta e frequentò l’Accademia di Belle arti a Salford e Nottingham nei primi Duemila, quando nel Regno Unito la generazione nota come “Young British Artists” raggiungeva l’apice del successo. Ma, benché fortemente spinto dall’emergente mercato dell’arte londinese e prontamente cooptato dalla campagna marketing Cool Britannia del partito New Labour, il marchio distintivo degli YBA (caratterizzato da deliberata irriverenza, chiare provocazioni e stereotipi populisti dell’identità britannica) non presentava una Gran Bretagna abbastanza ampia da stimolare l’immaginazione di un ragazzo nato a Bolton da una coppia di immigrati indiani.1 E, d’altra parte, Patel non venne a conoscenza delle opere di John Akomfrah o gli artisti del collettivo BLK durante i suoi anni di formazione.2
Patel fu attirato invece dal potere dell’autorappresentazione che incontrò nei video, oggi iconici, in cui Bruce Nauman si esibiva davanti alla telecamera nel suo studio.3 Unendo un approccio calcolato all’obiettivo e il potere del cinema mainstream, Patel ha sviluppato una pratica di costruzione del sé sfruttando frammenti appartenenti all’immaginario collettivo. Un aspetto che risulta evidente nell’installazione a quattro schermi The Other Suit (“L’altro abito”, 2015), in cui l’artista mette in scena nel salotto di casa una serie di archetipi maschili tratti dai blockbuster hollywoodiani (da Men in Black all’Uomo Ragno).
Hetain Patel, Don’t Look at the Finger, 2017. Video monocanale HD, suono stereo. Courtesy dell’artista, e Chatterjee & Lal, Mumbai. Collezione Fondazione In Between Art Film
Dal mio punto di vista, l’intento di Patel non è – come spesso viene ipotizzato per le opere video – “agire nello spazio fra film e arte,” bensì di realizzare film che siano arte.4 O, per converso, un’arte che sia un film. Non credo sia interessato a esplorare tematiche legate alla superiorità dell’uno o dell’altro, né all’aderenza delle sue opere a una serie di regole o approcci, quanto piuttosto all’opportunità di attirare il più ampio pubblico possibile.
In Essere singolare plurale (2000), il filosofo francese Jean-Luc Nancy sostiene che sia possibile dare un senso all’“essere” nel mondo solo grazie all’“essere-con” gli altri.5 Quest’articolazione della comunità come qualcosa che non esiste da sola, ma anzi dev’essere costruita o formata attraverso uno sforzo – grazie all’essere-con –, è il tema che attraversa tutta la produzione di Patel, e che trova la sua più piena realizzazione, almeno finora, in Don’t Look at the Finger.
Vediamo in gioco un approccio intersezionale ben ponderato, il gesto dell’essere-con è messo in pratica su una vasta gamma di assi diversi. Emerge con chiarezza dalla scelta di utilizzare un cast di attori Neri che indossano costumi d’ispirazione giapponese realizzati con tessuti dell’Africa occidentale, che eseguono coreografie che strizzano l’occhio al cinema di Hong Kong, in una scena dalla struttura narrativa bollywoodiana e dall’esuberanza visiva de Il principe cerca moglie (1988), la commedia romantica interpretata da Eddie Murphy che figura tra i film hollywoodiani preferiti da Patel.6 Ma è grazie all’utilizzo della lingua dei segni, proposta come forma di comunicazione alternativa, che l’artista riesce ad attingere in modo significativo al sapere ancestrale insito nel corpo.
In un breve video su YouTube in cui parla del ruolo della lingua dei segni nel film, Louise Stern, l’esperta in materia che ha collaborato con l’artista, individua nell’opera di Patel il desiderio di stabilire un contatto con il prossimo. In Don’t Look at the Finger vediamo realizzarsi ciò che oltre tredici anni di pratica artistica hanno reso possibile: un esercizio cumulativo e prolungato dell’essere-con.
Il matrimonio è naturalmente un modo per stabilire un contatto con il prossimo, per essere “singolari plurali”; è un’iniziativa ottimistica. E Don’t Look at the Finger veicola proprio quest’ottimismo. Si tratta di un film pervaso dalla speranza che parla di come si convive con la diversità senza però esserne definiti.
—Traduzione dall’inglese di Aurelia Di Meo
Hammad Nasar, Senior Research Fellow, Paul Mellon Centre for Studies in British Art e Co-Curatore, British Art Show 9
Hammad Nasar è un Curatore, Ricercatore e Consulente strategico che vive a Londra. Attualmente è Senior Research Fellow, Paul Mellon Center for Studies in British Art (parte della Yale University); Principal Research Fellow, Decolonising Arts Institute, UAL; e Co-Curatore, British Art Show 9. È stato Direttore Esecutivo inaugurale della Stuart Hall Foundation, Londra (2018-19); Head of Research & Programs presso l’Asia Art Archive, Hong Kong (2012-16); e, ha co-fondato l’organizzazione pionieristica per le arti ibride, Green Cardamom, Londra (2004-12).
Hetain Patel, Artista
Hetain Patel è un artista visivo e performativo che vive a Londra. Le sue performance, film, sculture e fotografie sono state mostrate in tutto il mondo, inclusa la Biennale di Venezia; Centro Ullens per l’Arte Contemporanea, Pechino; Tate Modern, Londra; e Sadler’s Wells, Londra, dove è un New Wave Associate. Patel ha realizzato il suo primo lavoro per la compagnia di danza Candoco nel 2014, che è stato in tournée a livello internazionale per cinque anni. Il suo lavoro, che esplora l’identità e la libertà usando umorismo, coreografia e la parola scritta si manifesta in diversi formati e media, destinati a raggiungere un più ampio pubblico possibile. I suoi video e le sue performance online sono state guardate oltre 50 milioni di volte, compreso il suo discorso TED Who Am I? Think Again (“Chi sono? Pensaci ancora,” 2013). Patel è Patron di QUAD, Derby, e siede fa parte dell’Artist Council per a-n. È il vincitore del Film London Jarman Award 2019, Migliore film internazionale a Kino Der Kunst Festival 2020 ed è stato selezionato per partecipare al British Art Show 9, 2021-22.
1 Elisabeth Legge, citata in Melissa Gronlund, “British National Identity in the Video Works of the YBAs”, in Erika Balsom, Lucy Reynolds e Sarah Perks (a cura di), Artists’ Moving Image in Britain Since 1989, Paul Mellon Center for Studies in British Art, Londra 2019, p. 56. Per un’analisi incisiva delle “forze contraddittorie della globalizzazione e del provincialismo regressivo del mondo dell’arte”, si veda Kobena Mercer, “Ethnicity and Internationality: New British Art and Diaspora-Based Blackness”, Third Text, 49, Inverno 1999-2000.
2 In un’intervista con l’autore del 5 aprile 2021, Patel ricorda l’opera di Chila Kumari Burman, cui si imbatté in biblioteca, come l’unico esempio di arte contemporanea realizzata da un’artista britannica-sudasiatica che incontrò nel corso dei suoi studi in campo artistico.
3 Intervista con l’autore, cit.
4 Jens Hoffmann, “Cinema for Exhibitions”, in Jens Hoffmann (a cura di), Blockbuster, CIAC, Città del Messico 2012, p. 12
5 Jean-Luc Nancy, Essere singolare plurale, Einaudi, Torino 2021
6 Intervista con l’autore, cit.
Mondi in trasformazione
Don’t Look at the Finger (2017) di Hetain Patel
Di Hammad Nasar
Hammad Nasar analizza il film Don’t Look at the Finger (2017) di Hetain Patel e ripercorre i tropi culturali che, negli anni, hanno influenzato il linguaggio visivo attraverso cui l’artista ha affrontato la questione del convivere con la diversità, dall’Uomo Ragno alla poetica di Bruce Nauman.
Hetain Patel, Don’t Look at the Finger, 2017. Video monocanale HD, suono stereo. Courtesy dell’artista, e Chatterjee & Lal, Mumbai. Collezione Fondazione In Between Art Film
Don’t Look at the Finger (2017) di Hetain Patel segue un combattimento prematrimoniale stilizzato fra un uomo e una donna. Il film è stato girato in una chiesa londinese, ma la cerimonia nuziale cinematografica cui assistiamo ha pochissimi elementi in comune con la tradizione cristiana: ciò che vediamo è uno spettacolo bizzarro e cosmopolita. L’impressione è che i costumi provengano dall’Africa occidentale, le coreografie da Hong Kong e la colonna sonora da un luogo imprecisato a metà strada. La centralità di questi tre aspetti (costumi, coreografia e musica) li eleva allo statuto di personaggi, anziché semplici elementi accessori. Ed è la loro triangolazione a fornire un arco narrativo anche a chi non conosce la lingua dei segni britannica, perché nel film non viene detta alcuna parola, ogni comunicazione avviene a livello fisico e non verbale: persino i voti nuziali sono pronunciati nella lingua dei segni.
Non è chiaro se i membri del cast interpretino personaggi non udenti o siano invece impegnati in un rituale muto. La decisione di Patel di non ricorrere ai sottotitoli capovolge i benefici di cui in genere godono i corpi abili, e chi è esperto della lingua dei segni rimane avvantaggiato rispetto a chi non lo è. La maggior parte del pubblico udente può però ascoltare l’incalzante colonna sonora realizzata da Amy May, che evoca la grandiosità epica di Hans Zimmer e l’atmosfera del successo crossover La tigre e il dragone (2000) di Ang Lee. Il film non tenta in alcun modo di mediare fra questi due pubblici, cui offre esperienze diverse senza presentare false equivalenze.
L’esitazione e l’agitazione con cui questa coppia giovane e fotogenica si avvicina alla sacerdotessa che presiede la cerimonia ricordano i matrimoni combinati di innumerevoli film di Bollywood. La disposizione con cui le rispettive famiglie sostengono gli sposi rimanda a un altro tropo culturale tipico dell’Asia meridionale, ossia l’idea del matrimonio come unione di due famiglie. Il cast composto esclusivamente da attori Neri, tuttavia, non offre nessun rimando scontato all’eredità culturale dell’artista, e la stessa reticenza è riservata agli stereotipi di genere. Il rituale della coppia, una sorta di botta e risposta, mescola kung fu e linguaggio dei segni, in una serie di scambi esteticamente gradevoli che scivolano fluidi da un uomo bello e talvolta vulnerabile a una donna i cui gesti emanano forza, in un rifiuto di qualsiasi aspettativa di genere. Siamo invitati a entrare in un mondo diverso.
IL RITUALE DELLA COPPIA, UNA SORTA DI BOTTA E RISPOSTA, MESCOLA KUNG FU E LINGUAGGIO DEI SEGNI, IN UNA SERIE DI SCAMBI ESTETICAMENTE GRADEVOLI CHE SCIVOLANO FLUIDI DA UN UOMO BELLO E TALVOLTA VULNERABILE A UNA DONNA I CUI GESTI EMANANO FORZA, IN UN RIFIUTO DI QUALSIASI ASPETTATIVA DI GENERE. SIAMO INVITATI A ENTRARE IN UN MONDO DIVERSO.
Hetain Patel, Don’t Look at the Finger, 2017. Video monocanale HD, suono stereo. Courtesy dell’artista, e Chatterjee & Lal, Mumbai. Collezione Fondazione In Between Art Film
Il titolo Don’t Look at the Finger (“Non ti concentrare sul dito”) si ispira a una battuta di Bruce Lee ne I 3 dell’operazione Drago (1973), pietra miliare dei film dedicati alle arti marziali, in cui Lee ci ordina di non guardare il dito se non vogliamo perderci ciò che esso indica. La pura ammirazione che Patel prova per Lee non si limita ai suoi moniti (anche Be Like Water [“Sii acqua”, 2012], una performance di Patel diventata un TED Talk, deve il titolo a una massima di Lee) né al valore simbolico che l’attore d’azione asiatico ha avuto agli occhi di un bambino Marrone cresciuto in una cittadina operaia e prevalentemente bianca dell’Inghilterra del nord. L’artista sembra ispirarsi a Lee anche per quanto riguarda il suo approccio al cinema, in cui la linfa vitale dell’opera deriva più dal corpo in movimento che dalla sceneggiatura. Don’t Look at the Finger è forse l’invito più generoso con cui Patel chiede al pubblico di entrare nel dojo e di occupare lo spazio fra l’azione e l’aspettativa in cui lui vuole giocare, lo stesso spazio da cui Lee ci mette invece in guardia.
Le dimensioni dello schermo e il design immersivo del suono ci permettono di vedere i personaggi a grandezza reale e di percepire il film a un livello viscerale: siamo immersi nel suo mondo immaginario. Gli amanti del lavoro di Patel sapranno riconoscere i semi da cui è sbocciato Don’t Look at the Finger. Le cerimonie matrimoniali eccentriche, per esempio, ricorrono in diverse opere. Nella proiezione video a due canali The Jump (“Il salto”, 2015), uno schermo ci mostra il salotto della casa della nonna dell’artista: qui la sua famiglia allargata, vestita come per partecipare a un matrimonio, lo osserva spiccare un salto dal bracciolo del divano, in uno slow motion estremamente accentuato, mentre indossa un costume da Uomo Ragno realizzato con le sue mani. L’altro schermo presenta invece la versione epica e hollywoodiana dello stesso gesto: il salto si staglia su uno sfondo buio e invaso dal fumo, costituendo uno yang oscuro rispetto allo yin quasi comico rappresentato dalla famiglia riunita per la cerimonia. In un’opera precedente, The First Dance (“Il primo ballo”, 2012), il novello sposo Patel ricostruisce una scena tratta da La tigre e il dragone: l’artista, che al posto della divisa da kung fu indossa lo sherwani di nozze, si trova davanti alla moglie (la drammaturga e curatrice per la danza e le arti performative Eva Martinez), vestita con lo stesso abito da sposa indiano che i più attenti ricorderanno di aver già visto in The Jump.
Hetain Patel, The Jump, 2015. Video a doppio canale HD, suono stereo. Courtesy dell’artista, e Chatterjee & Lal, Mumbai. Collezione Fondazione In Between Art Film
I costumi disegnati da Holly Waddington per Don’t Look at the Finger si ispirano all’abbigliamento dei samurai giapponesi e alla moda d’avanguardia, e a livello visivo rimandano alle vicende coloniali narrate dai tessuti Wax africani. La loro funzionalità – che grazie a una serie di pieghe e modifiche permette di trasformare un’uniforme da combattimento in un abito da cerimonia – deriva però dal franchise nippo-americano Transformers, che racconta la storia di robot autonomi e senzienti capaci di assumere diverse forme, tra cui quelle di mezzi di trasporto e animali. Anche in questo caso, come in quello delle cerimonie nuziali, troviamo dei precedenti nella produzione di Patel. In Fiesta Transformer (2013), l’artista ha collaborato con il padre (operaio automobilistico) e il fratello (ingegnere) per trasformare una semplice Ford Fiesta del 1988, lo stesso modello dalla sua prima auto, in un’entità accucciata dalle sembianze umane. Il potenziale trasformativo della figura rannicchiata è una metafora che accomuna l’Uomo Ragno e la Fiesta Transformer di Patel.
Patel scoprì l’arte negli anni Novanta e frequentò l’Accademia di Belle arti a Salford e Nottingham nei primi Duemila, quando nel Regno Unito la generazione nota come “Young British Artists” raggiungeva l’apice del successo. Ma, benché fortemente spinto dall’emergente mercato dell’arte londinese e prontamente cooptato dalla campagna marketing Cool Britannia del partito New Labour, il marchio distintivo degli YBA (caratterizzato da deliberata irriverenza, chiare provocazioni e stereotipi populisti dell’identità britannica) non presentava una Gran Bretagna abbastanza ampia da stimolare l’immaginazione di un ragazzo nato a Bolton da una coppia di immigrati indiani.1 E, d’altra parte, Patel non venne a conoscenza delle opere di John Akomfrah o gli artisti del collettivo BLK durante i suoi anni di formazione.2
Patel fu attirato invece dal potere dell’autorappresentazione che incontrò nei video, oggi iconici, in cui Bruce Nauman si esibiva davanti alla telecamera nel suo studio.3 Unendo un approccio calcolato all’obiettivo e il potere del cinema mainstream, Patel ha sviluppato una pratica di costruzione del sé sfruttando frammenti appartenenti all’immaginario collettivo. Un aspetto che risulta evidente nell’installazione a quattro schermi The Other Suit (“L’altro abito”, 2015), in cui l’artista mette in scena nel salotto di casa una serie di archetipi maschili tratti dai blockbuster hollywoodiani (da Men in Black all’Uomo Ragno).
Hetain Patel, Don’t Look at the Finger, 2017. Video monocanale HD, suono stereo. Courtesy dell’artista, e Chatterjee & Lal, Mumbai. Collezione Fondazione In Between Art Film
Dal mio punto di vista, l’intento di Patel non è – come spesso viene ipotizzato per le opere video – “agire nello spazio fra film e arte,” bensì di realizzare film che siano arte.4 O, per converso, un’arte che sia un film. Non credo sia interessato a esplorare tematiche legate alla superiorità dell’uno o dell’altro, né all’aderenza delle sue opere a una serie di regole o approcci, quanto piuttosto all’opportunità di attirare il più ampio pubblico possibile.
In Essere singolare plurale (2000), il filosofo francese Jean-Luc Nancy sostiene che sia possibile dare un senso all’“essere” nel mondo solo grazie all’“essere-con” gli altri.5 Quest’articolazione della comunità come qualcosa che non esiste da sola, ma anzi dev’essere costruita o formata attraverso uno sforzo – grazie all’essere-con –, è il tema che attraversa tutta la produzione di Patel, e che trova la sua più piena realizzazione, almeno finora, in Don’t Look at the Finger.
Vediamo in gioco un approccio intersezionale ben ponderato, il gesto dell’essere-con è messo in pratica su una vasta gamma di assi diversi. Emerge con chiarezza dalla scelta di utilizzare un cast di attori Neri che indossano costumi d’ispirazione giapponese realizzati con tessuti dell’Africa occidentale, che eseguono coreografie che strizzano l’occhio al cinema di Hong Kong, in una scena dalla struttura narrativa bollywoodiana e dall’esuberanza visiva de Il principe cerca moglie (1988), la commedia romantica interpretata da Eddie Murphy che figura tra i film hollywoodiani preferiti da Patel.6 Ma è grazie all’utilizzo della lingua dei segni, proposta come forma di comunicazione alternativa, che l’artista riesce ad attingere in modo significativo al sapere ancestrale insito nel corpo.
In un breve video su YouTube in cui parla del ruolo della lingua dei segni nel film, Louise Stern, l’esperta in materia che ha collaborato con l’artista, individua nell’opera di Patel il desiderio di stabilire un contatto con il prossimo. In Don’t Look at the Finger vediamo realizzarsi ciò che oltre tredici anni di pratica artistica hanno reso possibile: un esercizio cumulativo e prolungato dell’essere-con.
Il matrimonio è naturalmente un modo per stabilire un contatto con il prossimo, per essere “singolari plurali”; è un’iniziativa ottimistica. E Don’t Look at the Finger veicola proprio quest’ottimismo. Si tratta di un film pervaso dalla speranza che parla di come si convive con la diversità senza però esserne definiti.
—Traduzione dall’inglese di Aurelia Di Meo
Hammad Nasar, Senior Research Fellow, Paul Mellon Centre for Studies in British Art e Co-Curatore, British Art Show 9
Hammad Nasar è un Curatore, Ricercatore e Consulente strategico che vive a Londra. Attualmente è Senior Research Fellow, Paul Mellon Center for Studies in British Art (parte della Yale University); Principal Research Fellow, Decolonising Arts Institute, UAL; e Co-Curatore, British Art Show 9. È stato Direttore Esecutivo inaugurale della Stuart Hall Foundation, Londra (2018-19); Head of Research & Programs presso l’Asia Art Archive, Hong Kong (2012-16); e, ha co-fondato l’organizzazione pionieristica per le arti ibride, Green Cardamom, Londra (2004-12).
Hetain Patel, Artista
Hetain Patel è un artista visivo e performativo che vive a Londra. Le sue performance, film, sculture e fotografie sono state mostrate in tutto il mondo, inclusa la Biennale di Venezia; Centro Ullens per l’Arte Contemporanea, Pechino; Tate Modern, Londra; e Sadler’s Wells, Londra, dove è un New Wave Associate. Patel ha realizzato il suo primo lavoro per la compagnia di danza Candoco nel 2014, che è stato in tournée a livello internazionale per cinque anni. Il suo lavoro, che esplora l’identità e la libertà usando umorismo, coreografia e la parola scritta si manifesta in diversi formati e media, destinati a raggiungere un più ampio pubblico possibile. I suoi video e le sue performance online sono state guardate oltre 50 milioni di volte, compreso il suo discorso TED Who Am I? Think Again (“Chi sono? Pensaci ancora,” 2013). Patel è Patron di QUAD, Derby, e siede fa parte dell’Artist Council per a-n. È il vincitore del Film London Jarman Award 2019, Migliore film internazionale a Kino Der Kunst Festival 2020 ed è stato selezionato per partecipare al British Art Show 9, 2021-22.
1 Elisabeth Legge, citata in Melissa Gronlund, “British National Identity in the Video Works of the YBAs”, in Erika Balsom, Lucy Reynolds e Sarah Perks (a cura di), Artists’ Moving Image in Britain Since 1989, Paul Mellon Center for Studies in British Art, Londra 2019, p. 56. Per un’analisi incisiva delle “forze contraddittorie della globalizzazione e del provincialismo regressivo del mondo dell’arte”, si veda Kobena Mercer, “Ethnicity and Internationality: New British Art and Diaspora-Based Blackness”, Third Text, 49, Inverno 1999-2000.
2 In un’intervista con l’autore del 5 aprile 2021, Patel ricorda l’opera di Chila Kumari Burman, cui si imbatté in biblioteca, come l’unico esempio di arte contemporanea realizzata da un’artista britannica-sudasiatica che incontrò nel corso dei suoi studi in campo artistico.
3 Intervista con l’autore, cit.
4 Jens Hoffmann, “Cinema for Exhibitions”, in Jens Hoffmann (a cura di), Blockbuster, CIAC, Città del Messico 2012, p. 12
5 Jean-Luc Nancy, Essere singolare plurale, Einaudi, Torino 2021
6 Intervista con l’autore, cit.