SCOLPIRE ATTRAVERSO IL FILM
Yuri Ancarani in conversazione con Lucia Aspesi
In questa conversazione con Lucia Aspesi, Yuri Ancarani parla del suo approccio alle diverse dimensioni sociali, spaziali e sonore che caratterizzano le sale cinematografiche e museali, e nota la svolta nella sua ricerca operata dal suo ultimo film Atlantide.
Yuri Ancarani, Il Capo, 2010. Still da video. Courtesy dell’artista, ZERO…, Isabella Bortolozzi Galerie
Lucia Aspesi: Voglio confessare subito il mio imbarazzo prima di iniziare l’intervista: è da più di un anno che non vado al cinema… Ti manca andare a vedere i film?
Yuri Ancarani: In questi ultimi anni ho avuto la fortuna di aver viaggiato molto e di aver preso parte a diversi festival, così ho avuto l’opportunità di vedere le produzioni più recenti. Normalmente ho paura di guardare un film e chiedo sempre consiglio a chi mi conosce—mi aiuta a non soffrire perché sono rari quelli che mi piacciono. In passato mi è capitato di lasciare la sala durante una proiezione: non mi basta assistere alla messa in scena di una storia, perché quella preferisco leggerla in un libro e fantasticare sui personaggi, i luoghi e gli ambienti. Con l’immagine in movimento invece non c’è questo spazio, perché tutti i sensi sono focalizzati su quello che stai guardando e da qui ne deriva una grossa responsabilità, per quanto mi riguarda. Trovo che l’intrattenimento fine a sé stesso sia devastante.
LA: Il tuo lavoro si insinua in quelle riflessioni critiche nate nell’ambito del cinema sperimentale degli anni ‘70 e che dalla sala di proiezione si espandono ora nella creazione di ambienti immersivi multi-sensoriali. In questo discorso l’influsso dei media di massa attiva una serie di connessioni che muovono verso una riconsiderazione della dimensione sociale e collettiva del film. Puoi parlaci del tuo approccio alla spazialità della sala cinematografica?
YA: Penso che l’opera, anche se è nata per essere guardata, mentre la osservi contemporaneamente ti guarda, e luoghi come il cinema o il museo sono ideali per permettere all’opera di guardare lo spettatore. Attualmente si tende a delegare la fruizione cinematografica a un elettrodomestico—un televisore, un computer o un dispositivo mobile —che non ha niente a che vedere con ciò che può offrire una proiezione in uno spazio museale. Inoltre, da sempre mi affascina la sproporzione che incontri entrando in una sala di proiezione, dove le persone sono piccole di fronte allo schermo, poiché da subito si crea una condizione di immersività nella quale anche l’aspetto sonoro ha un ruolo centrale. In passato andare al cinema era un’esperienza collettiva, dove al suono della pellicola si mischiavano il vociare delle persone, mentre ora anche la sala di proiezione si riempie di silenzio, similmente a quanto accade in una visita al museo.
DA SEMPRE MI AFFASCINA LA SPROPORZIONE CHE INCONTRI ENTRANDO IN UNA SALA DI PROIEZIONE, DOVE LE PERSONE SONO PICCOLE DI FRONTE ALLO SCHERMO, POICHÉ DA SUBITO SI CREA UNA CONDIZIONE DI IMMERSIVITÀ NELLA QUALE ANCHE L’ASPETTO SONORO HA UN RUOLO CENTRALE. IN PASSATO ANDARE AL CINEMA ERA UN’ESPERIENZA COLLETTIVA, DOVE AL SUONO DELLA PELLICOLA SI MISCHIAVANO IL VOCIARE DELLE PERSONE, MENTRE ORA ANCHE LA SALA DI PROIEZIONE SI RIEMPIE DI SILENZIO, SIMILMENTE A QUANTO ACCADE IN UNA VISITA AL MUSEO.
Yuri Ancarani, The Challenge, 2016. Still da video. Courtesy dell’artista, ZERO…, Isabella Bortolozzi Galerie
LA: Mi ha piacevolmente colpito vedere l’Augustus Color di Roma nei crediti dei tuoi primi lavori. Sono passati più di dieci anni da quando ci sono andata la prima volta, e ricordo i corridoi bui con gli scaffali ricolmi di pizze di film girati a Cinecittà, da Luchino Visconti a Pier Paolo Pasolini. Avevo l’impressione di essere su una metropolitana che ripercorreva la storia del cinema italiano fino alla televisione. Anche se il film vive davanti allo schermo, la sua essenza inizia già nelle sale di montaggio, e mi incuriosiva sapere come ci sei arrivato.
YA: Augustus Color è una struttura che segue ogni aspetto della post-produzione di un film partendo dalla stampa della pellicola tradizionale fino agli effetti speciali digitali. Quando ci sono entrato per la prima volta mi sono trovato in un labirinto di studi—ognuno con una competenza diversa—e mi sono immerso in una dimensione lontana da quella del video-making, con cui lavoro. É stato molto complesso, ma all’interno di questa struttura sono letteralmente cresciuto. Di norma il regista gestisce il proprio team che è in dialogo con i diversi professionisti dello studio e si presenta solo raramente. Invece il mio modo di operare è differente: entro a inizio lavori ed esco solo quando il film è finito, seguendo ogni singola fase. All’Augustus Color, conosco dallo stagista al metronotte e tutti sono al corrente del film che sta nascendo.
LA: Come ti sei relazionato al video nei tuoi primi lavori?
YA: Sono un po’ autodidatta… Mi sono formato negli anni ‘90 nel periodo in cui il video era un mezzo giovane, e per questo motivo l’ho trovato più interessante rispetto al cinema. Era molto più intuitivo, diretto ed economico e mi dava la possibilità di esprimermi con grande semplicità e velocità. Il cinema invece mi sembrava un’impresa inavvicinabile, con tutte le maestranze e ciò che ne deriva. Nessuno ci pensa mai quando va a vedere un film, al fatto che dietro a una macchina da presa ci sono i tir. A me sembra sconvolgente… Per farti un esempio, ogni volta la scelta dell’inquadratura è determinata dalla necessità di far arrivare 3 camion in quel punto e invece per me è come spostarsi con uno zaino un po’ ingombrante. Mi rendo conto che tutto questo discorso sia molto estremizzato, ma realizzare un film con il linguaggio del video-maker credo possa rompere certe consuetudini e spingere a generare qualcosa di nuovo. L’ultima produzione—Atlantide (2021), recentemente presentato alla sezione Orizzonti della 78° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica organizzata dalla Biennale di Venezia—concretizza questo pensiero.
Yuri Ancarani, “Sculture,” veduta dell’installazione di The Challenge, 2016 (sinistra) e Wedding, 2016 (destra), presso Kunsthalle Basel, 2018. Foto di Philipp Hänger / Kunsthalle Basel
LA: Hai parlato del tuo passaggio dal video al cinema e vorrei ora approfondire un altro media che, anche se può sembrare paradossale, trovo molto affascinante nel tuo lavoro. Non a caso lo hai usato simbolicamente come titolo per la tua prima mostra istituzionale alla Kunsthalle Basel nel 2018, e apre a una lettura della tua produzione che trovo essenziale: la scultura. Oltre a essere un medium specifico della storia dell’arte, offre la possibilità di vedere come l’immagine in movimento si relaziona a questioni spaziali e volumetriche quando esposta in ambito museale. E anche se sembra una contraddizione in termini, il tuo primo lavoro cinematografico Il Capo (2010) è girato in una cava di marmo. Come sei arrivato a questa sintesi, che è già scritta in quello che potrebbe essere l’incipit di un racconto sul tuo lavoro ormai ventennale?
YA: Oggi siamo consapevoli che è scorretto pensare all’immagine in movimento come a uno spazio unicamente determinato dallo schermo su cui è trasmesso, perché la quotidianità ci dimostra che viviamo all’interno di immagini. I confini tra ciò che è reale e virtuale sono sempre più labili e le immagini all’interno di un display di un cellulare hanno una loro tridimensionalità. I personaggi di cui racconto mi interessano come esseri umani ma anche come forme, mi interessa guardarli e proporli. Questo discorso è molto evidente in Il Capo e anche in Atlantide.
LA: Vorrei continuare a parlare di come ti relazioni a uno spazio espositivo, e sono curiosa di conoscere il tuo rapporto con il tempo.
YA: Rispetto ad altri medium in cui è lo spettatore che decide il periodo di contemplazione di un’opera d’arte, nell’immagine in movimento il tempo è parte del lavoro, e la sua durata è determinata dall’autore, e dunque ne deriva una grande responsabilità. Inoltre, lo stesso spazio espositivo è in relazione con il tempo, e questo rapporto è legato al movimento del visitatore nella galleria, sala dopo sala. Per me creare una mostra è come raccontare piccole storie, indipendenti le une dalle altre, ma è nell’esperienza che ciascuno fa del percorso che prende forma un universo più ampio. Ad esempio, San Siro (2014) è il backstage di una partita di calcio, ma insieme agli altri lavori della trilogia San Vittore e San Giorgio è una chiara riflessione su quello che rappresentano i tre edifici in cemento nei quali ciascun film è ambientato – lo stadio, il carcere e la banca. Questa trilogia, “Le origini della violenza” (2014-19), è un’indagine attorno a come il controllo sociale sia basato su due poli: la pena e l’intrattenimento.
Yuri Ancarani, San Siro, 2014. Still da video. Courtesy dell’artista, ZERO…, Isabella Bortolozzi Galerie
LA: Tutto questo mi fa pensare a una delle sensazioni che ho provato guardando alcuni dei tuoi film, nei quali sembri voler raffigurare una sorta di “limite potenziale del fallimento umano”. Ciò avviene per esempio attraverso un’accurata descrizione di un ambito del sapere molto circoscritto—come un capo cava, o un chirurgo—e nella simbiosi che prende forma nel tuo racconto, si evince un’eventuale sconfitta. Nei tuoi film ci si ritrova inglobati, sovrastati da un qualcosa che è difficile da spiegare.
YA: Sono ormai due decenni che nel mio lavoro esploro il mondo progettato da forme di patriarcato cercando di mettere in evidenza questi comportamenti, osservandoli con molta attenzione, in tutti gli ambiti della nostra società. In questo senso la relazione uomo-macchina, uno dei temi che emerge in diversi film, è ritratta in modo diretto e sin dal primo fotogramma lo spettatore è immerso in ambienti innaturali: come una camera iperbarica di sopravvivenza in Piattaforma Luna (2011) o una cava di marmo o ancora in Da Vinci (2012), ambientato all’interno di un corpo umano.
LA: L’aspetto sonoro amplifica le situazioni con cui ti confronti.
YA: Nella maggior parte dei miei film la storia è irrilevante, sono le immagini che parlano e, non essendoci neanche i dialoghi, il suono diventa molto importante. La musica è l’anima del film poiché ne costruisce la drammaturgia sonora. Nei casi in cui integro la parola, questa ha delle specifiche acustiche singolari, come in Piattaforma Luna, in cui i protagonisti parlano con la voce alterata a causa dell’elio presente nella cella iperbarica. È dunque utilizzata come uno strumento acustico senza scopi narrativi. Ci sono anche delle eccezioni come in Seance (2014), che è fondamentalmente un monologo raccontato attraverso una medium che parla per conto di Carlo Mollino.
Yuri Ancarani, Piattaforma Luna, 2011. Still da video. Courtesy dell’artista, ZERO…, Isabella Bortolozzi Galerie
LA: Sono curiosa di conoscere invece come nasce Whipping Zombie (2017), girato ad Haiti, nel quale attraverso un dialogo serrato tra immagini e suono, descrivi una danza rituale—da cui deriva il titolo dell’opera—che si esprime in movimenti di lotta e trance, a innescare un ciclo continuo tra morte e rinascita.
YA: Per capire un film complesso come Whipping Zombie si deve prendere in considerazione il suo opposto The Challenge (2017), entrambi ambientati in due zone geografiche estreme, lontane dall’Occidente, Qatar e Haiti. I lavori parlano della decadenza dei principi legati al capitalismo e all’esportazione dei suoi valori economici e culturali, testimoniando che qualcosa è andato storto.
LA: Trovi sempre delle situazioni molto specifiche dove andare a riprendere, prima raccontavi il tuo rapporto diretto con la camera e della relazione che instauri con la persona che decidi di ritrarre. Come inizi un progetto?
YA: Mi muovo molto intuitivamente, le cose accadono e piano piano il progetto inizia a prendere forma. A volte mi capita di sorprendermi, come nella trilogia “Le origini della violenza,” dove alla fine delle produzioni mi sono accorto che il cemento, le sbarre, le chiavi e la polizia erano presenti in tutti i film. Nella trilogia “La malattia del ferro” (2010-12), invece ho realizzato che per indagare il tema del lavoro, mi sono dovuto spostare in alto in cima ad una montagna (Il Capo), in basso nel profondo dei mari (Piattaforma Luna) e dentro un corpo umano (Da Vinci).
Yuri Ancarani, Whipping Zombie, 2017. Still da video. Courtesy dell’artista, ZERO…, Isabella Bortolozzi Galerie
LA: Anche dopo la presentazione di un film, quando questo inizia a prendere la propria strada nei circuiti di distribuzione, la lettura del tuo lavoro continua ad evolvere in modo indipendente.
YA: La produzione artistica è un percorso, complesso da comprendere anche dallo stesso autore e questo è un processo che richiede tempo per essere assimilato.
LA: Paradossalmente anche l’idea di ciò che è quotidiano è molto presente nel tuo lavoro e oggi siamo di fronte a un drastico cambiamento.
YA: I ritmi che avevo prima erano ormai diventati insostenibili, facevo diversi progetti nello stesso tempo, per esempio The Challenge e Whipping Zombie li ho girati contemporaneamente mentre mi spostavo per gli USA e l’Europa per la promozione degli altri film. Proprio questo ha dato origine all’idea di lavorare vicino a casa e nel 2018 ho iniziato a girare Atlantide a Venezia.
Yuri Ancarani, Atlantide, 2021. Still da video. Courtesy dell’artista
LA: Com’è cambiato il progetto in questi anni?
YA: Il titolo Atlantide esiste dal primo giorno. Con il tempo ho cercato di osservare da vicino la vita dei veneziani e devo ammettere che è stato più complesso che guardare quella dei sauditi. Il film parla dei rituali violenti che attraversano gli adolescenti per diventare adulti, raccontati dagli occhi di Maila e Daniele. Sono andato a Venezia, una città che tutti hanno l’illusione di conoscere ma che in verità nessuno può comprendere. La sua vita si dirama su circuiti diversi: quello degli studenti, dei turisti e dei suoi abitanti. Tuttavia la sua essenza continuava a sfuggirmi, e allora ho smesso di guardarla dalle facciate dei suoi palazzi e ho iniziato a osservarla dalla laguna, sforzandomi di uscire da un punto di vista convenzionale. E così ho capito che Venezia è un’isola che non puoi comprendere se non conosci la laguna e le altre isole. Venezia è una meta, per capirla ci devi arrivare dall’acqua non dalla terra, altrimenti non la capirai mai. E così è nato Atlantide.
Yuri Ancarani è un videoartista e filmmaker che vive e lavora a Milano. La sua pratica nasce da una continua commistione tra cinema documentario e arte contemporanea, ed è il risultato di una ricerca volta ad esplorare realtà poco visibili quotidianamente. Le sue opere sono state esposte in musei nazionali e internazionali, oltre a mostre e festival, tra cui: Castello di Rivoli, Turino; Manifesta 12, Palermo; Kunsthalle Basel; XVI Quadriennale d’Arte, Roma; 55. Esposizione Internazionale d’Arte, Biennale di Venezia; CAC, Centre d’Art Contemporain, Ginevra; Centre Pompidou, Parigi; MAXXI, Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo, Roma; Hammer Museum, Los Angeles; R. Solomon Guggenheim Museum, New York City; Palais de Tokyo, Parigi; New York Film Festival, New York City; New Directors/New Films, MoMA, New York City; SXSW South by Southwest, Houston, Texas; TIFF Toronto International Film Festival, Toronto; Festival del Cinema, La Biennale di Venezia; e IFFR International Film Festival Rotterdam.
Lucia Aspesi è Assistente Curatore presso Pirelli HangarBicocca, Milano. Nel 2019 ha co-curato un’importante mostra personale di Sheela Gowda, presentata anche al Bombas Gens Centre d’Art, Valencia (2020), e le personali di Daniel Steegmann Mangrané e Trisha Baga (2020). Attualmente cura il programma di mostre “Cosmic Archaeology” al Wäinö Aaltonen Museum of Art, Turku, con personali di Tabita Rezaire, Alia Farid, Mox Mäkelä e Patricia Domínguez. Tra i suoi progetti indipendenti, Lucia Aspesi ha presentato la prima mostra personale di Ben Rivers in Italia alla Triennale di Milano (2017) e ha co-curato la grande retrospettiva su Marinella Pirelli al Museo del Novecento, Milano (2019). Da più di dieci anni collabora con l’Archivio Marinella Pirelli, Varese.
Yuri Ancarani è un videoartista e filmmaker che vive e lavora a Milano. La sua pratica nasce da una continua commistione tra cinema documentario e arte contemporanea, ed è il risultato di una ricerca volta ad esplorare realtà poco visibili quotidianamente. Le sue opere sono state esposte in musei nazionali e internazionali, oltre a mostre e festival, tra cui: Castello di Rivoli, Turino; Manifesta 12, Palermo; Kunsthalle Basel; XVI Quadriennale d’Arte, Roma; 55. Esposizione Internazionale d’Arte, Biennale di Venezia; CAC, Centre d’Art Contemporain, Ginevra; Centre Pompidou, Parigi; MAXXI, Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo, Roma; Hammer Museum, Los Angeles; R. Solomon Guggenheim Museum, New York City; Palais de Tokyo, Parigi; New York Film Festival, New York City; New Directors/New Films, MoMA, New York City; SXSW South by Southwest, Houston, Texas; TIFF Toronto International Film Festival, Toronto; Festival del Cinema, La Biennale di Venezia; e IFFR International Film Festival Rotterdam.
Lucia Aspesi è Assistente Curatore presso Pirelli HangarBicocca, Milano. Nel 2019 ha co-curato un’importante mostra personale di Sheela Gowda, presentata anche al Bombas Gens Centre d’Art, Valencia (2020), e le personali di Daniel Steegmann Mangrané e Trisha Baga (2020). Attualmente cura il programma di mostre “Cosmic Archaeology” al Wäinö Aaltonen Museum of Art, Turku, con personali di Tabita Rezaire, Alia Farid, Mox Mäkelä e Patricia Domínguez. Tra i suoi progetti indipendenti, Lucia Aspesi ha presentato la prima mostra personale di Ben Rivers in Italia alla Triennale di Milano (2017) e ha co-curato la grande retrospettiva su Marinella Pirelli al Museo del Novecento, Milano (2019). Da più di dieci anni collabora con l’Archivio Marinella Pirelli, Varese.