Su trasformazione, transizione e trascendenza
Hiwa K in conversazione con Bonaventure Soh Bejeng Ndikung
In questa conversazione intima e profonda con Bonaventure Soh Bejeng Ndikung, Hiwa K ci guida in un viaggio poetico che esplora la sua pratica artistica attraverso i concetti di trasformazione, transizione e trascendenza.

Hiwa K, Pre-Image (Blind as the Mother Tongue), 2017, still da video. Video HD monocanale. Courtesy dell’artista; KOW, Berlino; e Prometeo Gallery Ida Pisani, Milano-Lucca. Collezione Fondazione In Between Art Film.
Bonaventure Soh Bejeng Ndikung: Caro Hiwa, è un vero piacere rivederti e avere l’opportunità di parlare di nuovo con te. Poter scoprire queste tue tre opere epiche è stato molto commovente per me. È stata una vera benedizione, per usare un eufemismo, e mi piacerebbe discuterne insieme a te.
Vorrei innanzitutto dire che la visione di Pre-Image (Blind as the Mother Tongue) (Pre-immagine [Cieca come la lingua materna], 2017), View from Above (Visione dall’alto, 2017) e Nazha and the Bell Project (Nazha, e il progetto della campana, 2007-2015) evoca tre movimenti importanti: trasformazione, transizione e trascendenza.
La trasformazione per motivi evidenti: penso ai proiettili e alle campane, ma anche alle varie forme di passaggio, o trasformazione, vissute dagli esseri umani che si spostano dal punto A al punto B, e compiono così una transizione.
Il processo di transizione ne racchiude anche uno di trascendenza. Quando per esempio parli della morte di tuo padre, la musica gioca un ruolo fondamentale in quella trascendenza. Mi piacerebbe che tu partissi da questi concetti e li sviluppassi liberamente.
Hiwa K: Grazie, Bona. Come sempre, mi poni nuove domande. [ride] Innanzitutto bisogna fare una distinzione fra cambiamento e trasformazione. Il cambiamento riguarda il passato, mentre la trasformazione riguarda il potenziale sconfinato del futuro. È come la distinzione fra equità e uguaglianza. Tra i motivi per cui ho abbandonato gli studi al conservatorio c’è il metodo di Paco Peña, il mio insegnante. Diceva che le dita della mano destra devono obbedire al polso, che regola i movimenti di ogni dito… Questa visione mi ha sempre creato dei problemi, perché pensavo che ogni dito avesse un suo slancio particolare nel pizzicare la corda, e che il resto della mano dovesse adattarsi e aiutare quel dito per arrivare a un movimento genuino. Considero il concetto di democrazia – penso alla distinzione fra diversità e inclusione – dalla stessa prospettiva. Quello slancio ha una durata (costanza), più che essere un caso, perché nasce da un determinato stato d’animo (prima di suonare la nota), viene articolato (nel momento in cui viene suonata) e ci stupisce ogni volta per la sua potenzialità ignota. Transizione, trasformazione, trascendenza.
Per quanto riguarda Pre-Image (Blind as the Mother Tongue), avevo di fronte un problema su cui lavorare. Non lo definirò un contesto precoloniale, coloniale e neppure postcoloniale. In quest’opera cerco di seguire alcune tracce del passato in cui tutti noi siamo immersi, così come siamo coinvolti in ciò che sta succedendo ora. A volte dico che il compito di istruire i governi spetta ai popoli di Paesi come i nostri. Dobbiamo insegnare ai governi a partecipare alla risoluzione dei nostri problemi perché, in definitiva, è una questione che ci riguarda tutti, non si tratta di dare la colpa a…
BN: Scusa l’interruzione, ma avrei un’aggiunta, o una precisazione, a quello che hai appena detto… Ne La pedagogia degli oppressi, Paulo Freire scrive che, nel processo di disumanizzazione degli altri, l’oppressore disumanizza anche se stesso. Prosegue dicendo che il compito dell’oppresso non consiste soltanto nel liberarsi dall’oppressione, ma anche nel liberare l’oppressore da questo aspetto.¹
HK: Si tratta sempre di storie e le storie sono vere fintanto che non restiamo intrappolati in esse. Viviamo un periodo in cui dobbiamo liberarci a vicenda dalle storie che ci intrappolano: è il modo migliore per insegnare al proprio “oppressore” a liberarsi da quel dolore. Come sai, sono essenzialmente un narratore e il mio progetto più recente consiste nel vendere le mie storie: non in cambio di denaro, ma di lacrime. Gli spettatori e gli ascoltatori piangono, e io ne raccolgo le lacrime. Il mio fardello è avere una storia da raccontare. Secondo Shunyamurti, amare è liberare il proprio amante dalla sua storia senza inventarne un’altra.
Nel Sud globale stiamo affrontando una situazione di siccità: il caldo diventa sempre più intenso – l’estate scorsa, nella regione del Kurdistan iracheno si sono registrati 58 gradi – e l’acqua scarseggia a causa delle dighe costruite dalla Turchia per privarcene. Pensa ai milioni di migranti che si sposteranno in Occidente per via della situazione attuale, e immagina quanti consensi riscuoterà la destra in seguito a queste migrazioni. Siamo a un passo da questo scenario. Ma allo stesso tempo stiamo accogliendo una nuova generazione di bambini, molto più consapevole di quanto lo fosse la nostra, ed è motivo di grande speranza. Non sto cercando di mostrarmi ottimista, tutto ciò raddoppia la mia negatività. [ride]
La mia preoccupazione, ora, è questa: come possiamo andare oltre le semplici storie? Credo che adesso ci sia bisogno di un perdono incondizionato, un perdono che dobbiamo anche insegnare al prossimo.
BN: Un perdono incondizionato.
HK: Lo so, sembra uno stereotipo banale.
BN: Non sembra uno stereotipo. Ma tutto dipende da quant’è sincero.
HK: Quando parlo con il cuore, soprattutto negli ultimi tempi, sento davvero l’esigenza di dire cose del genere. Forse non risultano particolarmente intellettuali nel contesto artistico, ma per me non esiste solo quell’aspetto. Dobbiamo superare il concetto di chi osserva e di chi è osservato. Siamo tutti responsabili di ciò che sta accadendo, ne siamo tutti coinvolti. Dobbiamo ritrovare un legame con la fonte che ci ha generato. Ecco perché ho deciso di lavorare con proiettili e cannoni che circolano nel mondo da secoli.
In Sono venuto al mondo per vedere questo, Ḥāfeẓ scrive: “Sono venuto al mondo per vedere questo: / la spada cadere dalle mani degli uomini anche all’apice / del loro arco di rabbia / perché abbiamo finalmente capito che esiste un’unica carne da ferire / ed è… quella dei nostri cari.”
Sviluppare The Bell Project equivaleva alla possibilità di non assegnare colpe, di andare oltre. Ecco l’aspetto su cui mi concentro in questa fase della mia vita e della mia pratica. Negli ultimi tre anni, dopo essere stato riconosciuto come “Artista” a livello internazionale e dopo aver ricevuto dei premi, in un periodo in cui nel mio studio lavoravano anche dieci, dodici persone, non ho realizzato alcuna opera; ho fatto una scelta radicale e sono tornato nel mio Paese, per cercare di lavorare di più nelle comunità di Sulaymaniyya. Lavoro la terra insieme agli animali, provo a guarire la terra e a farmi guarire da essa.

Hiwa K, The Bell Project, 2007-2015, still da video. Installazione video a doppio canale, video SD e HD, 16:9, colore, suono con sottotitoli in inglese. Courtesy dell’artista; e KOW, Berlino. Collezione Fondazione In Between Art Film.
BN: Coltivi la terra. Pianti cose che si trasformano. I semi diventano piante, le piante diventano frutti, i frutti vengono mangiati, ed ecco che torni alla circolarità a cui accennavi, ovvero quella del proiettile che diventa una campana.
HK: È bellissimo! In questo periodo, al risveglio, penso alla terra anziché all’arte. Nei tanti anni di americanizzazione dell’Iraq, la terra e le piante sono state maltrattate da pesticidi e da sostanze chimiche di ogni tipo (che hanno triplicato i casi di cancro nel Paese). Cerco di guarire la terra da oltre due anni. Dopo essere stato un partigiano per decenni, sono diventato una specie di infermiere: i discorsi rivoluzionari non mi interessano più, sono diventato un infermiere perché ci sono moltissime cose da curare e guarire. La terra per me è come un intestino. Da bambino sono stato male per anni, per via di tutti gli antibiotici che mi avevano prescritto. Non dobbiamo dimenticare le crisi geopolitiche di tutto il mondo, accanto a crisi diverse, e che sono tutte causate dalle politiche neoliberiste approdate in Iraq durante la presidenza di Paul Bremer. Tocco con mano la carenza d’acqua. Turchia e Iran privano l’Iraq dell’acqua, è una strategia per reprimerla a livello politico.
Sto anche lavorando a un cinema itinerante. Ci spostiamo di villaggio in villaggio e parliamo di come gestire e accudire la terra, e di come riconoscere il valore di vecchi metodi tradizionali per occuparsi della terra e dell’ambiente. Il lavoro svolto negli ultimi anni ha anche trasformato il concetto di “io.”
BN: Quello che hai appena detto, Hiwa, mi fa venire in mente quello che ho letto di Roland Fomundam, un giovane imprenditore agricolo e sociale del Camerun, pochi giorni fa. Ha studiato biologia e gestione delle imprese negli Stati Uniti, ma poi è tornato a casa per occuparsi di agricoltura. Secondo lui, pochi decenni fa i semi piantati davano origine a piante robuste e non c’erano tanti insetti che le attaccavano, poiché le piante avevano dei meccanismi di autodifesa. Ma poi sono entrati in commercio dei fertilizzanti che avrebbero dovuto potenziare la crescita delle piante e invece le hanno indebolite e rese più vulnerabili a insetti e malattie. In sostanza, noi e le nostre piante siamo diventati dipendenti da queste sostanze chimiche. La domanda è: come si spezza questo ciclo? Credo che prendersi cura della terra sia un passaggio necessario. Ma dobbiamo anche parlare di come spezzare il ciclo che rinchiude una persona nel mondo dell’arte. Portare alle persone il cinema e dei messaggi mi sembra uno sforzo in questa direzione.
HK: Nemmeno interfacciarsi con “le persone” è un compito semplice. Mi capita di incontrare persone attratte, metaforicamente, da pomodori enormi, eccessivi, scintillanti, e da tutto ciò che appare bello. Apprezzano l’ordine e la regolarità: l’erba non deve cresce in modo casuale, bensì regolare e ordinato. Ho anche la sensazione che siano state conquistate o consumate dal cosiddetto “sogno americano.” In Iraq abbiamo una nuova specie di cavalletta che può essere uccisa solo dai pesticidi di Monsanto. Non chiedermi da dove provenga questa nuova specie.
Durante la guerra, il primo missile colpì l’archivio [banca] dei semi, il più antico del mondo. Malgrado quest’attacco esterno, non c’è spazio per le accuse. Credo che l’arte sia bloccata sull’accusa, tutte le mostre hanno un impatto talmente negativo sugli spettatori da trasmettere una sensazione di impotenza assoluta rispetto alla possibilità di fare qualsiasi cosa. Ormai ci troviamo in una situazione in cui dobbiamo lavorare in modo organico. So che queste parole suonano un po’ spirituali, però… Lo ripeto, so che la parola “amore,” come la parola “libertà,” è stata spesso usata impropriamente, e io stesso ho paura a usarla, ma ciò che conta è quello che arriva al cuore. L’importante è imparare qualcosa dagli alberi e dalla terra, quando incontriamo gli altri e ci occupiamo della terra e degli alberi con loro. Osservando il ritmo lento a cui crescono gli alberi, si rallenta insieme a loro. Forse sto divagando, ma sono convinto che ora ci sia bisogno proprio di questo. La specie umana è l’unica in grado di vivere in modo contrario alla propria natura.
BN: Sono argomenti coerenti con il discorso, ma vorrei parlare della trascendenza, un altro dei temi che percorrono i tuoi video. In un passaggio racconti il momento in cui tuo cugino ti dice che hai perso tuo padre; lui si aspetta da te una determinata reazione, e tu ribatti: “Be’, non mi è mai capitato di perdere mio padre.” In un altro passaggio stai per partire dal Kurdistan e tua madre ti dice: “Quando incontri la morte, non aver paura: è soltanto morte.” Mi parli di come articoli la trascendenza e del rapporto che hai con essa?
HK: Questa è una domanda molto, molto intensa. Ti racconto una storia. Poco tempo fa ero nei campi con mia madre, ma non potevo lavorare perché avevo mal di schiena, e lei ha detto che dovevamo ripulirne tutta la superficie: 2500 metri quadrati. Siccome ha ottantadue anni, ho osservato che era un lavoro eccessivo per lei, che ha risposto: “Mentre l’occhio ha paura, la mano già lavora”. [ride] Come mostrato in View from Above, l’occhio può spingersi a distanze astronomiche, ma le mani sono molto più limitate. Le parole di mia madre mi hanno colpito: in un certo senso, il discorso si applica alla perfezione alle mie opere artistiche, visto che a volte non ho idea di cosa sto facendo. La mia pratica trabocca di incertezze, anche se le mie mani lavorano mentre i miei occhi hanno paura. È un tentativo di dare la vista alle mani, per poter raggiungere distanze astronomiche.
Ricordi che non ho mostrato a nessuno Pre-Image, perché ero preoccupato all’idea di esporlo a documenta 14? Ho detto a Adam Szymczyk che non ero pronto. Ma tu sei stato la prima persona a vederlo; te l’ho mostrato in albergo, ti è piaciuto e ho detto: “Oddio, meno male, grazie a Dio ora posso presentarlo”.
BN: Mi ha davvero commosso.
HK: Sì, però ricordo anche come ne parlavi. Non so come esprimerlo, ma questi doni sono in grado di trasformarti, trascendendo su una frequenza diversa.
BN: Vorrei parlare della musica come medium che appaga. Sei molto legato alla chitarra, anche quando non la tieni fra le mani. Spesso, mentre parlo con te, vedo le tue dita muoversi. Hiwa, le tue dita suonano la chitarra anche quando la chitarra non c’è.
HK: Lo fanno in continuazione, sì.

Hiwa K, The Bell Project, 2007-2015, still da video. Installazione video a doppio canale, video SD e HD, 16:9, colore, suono con sottotitoli in inglese. Courtesy dell’artista; e KOW, Berlino. Collezione Fondazione In Between Art Film.
BN: È come se lo strumento fosse un’estensione del tuo corpo. Nel tuo rapporto con il suono prodotto, o con il suono che alberga in te, c’è qualcosa che agevola quella trascendenza. Anche se i tuoi video sono muti, si avverte una musicalità costante.
HK: È vero, la musicalità esiste anche nelle immagini. Non aggiungo mai la musica alle riprese: se è presente all’interno della situazione la lascio, perché per me le voci e i suoni in generale sono una musica costante. È paragonabile a una terza dimensione nella pittura, o almeno trasmette l’illusione di una terza dimensione: è come Gesù che torna a Dio.
L’ultima cosa che Maometto disse prima di morire ad Abū Bakr, affinché la riferisse al popolo, fu: “Per chi ha adorato Maometto, Maometto è morto; ma, per chi ha adorato Allah, Allah è vivo e mai morirà.” Maometto ci conduce a questa bidimensionalità, non concede a nessuno l’illusione che si andrà in paradiso, perché non esiste. Sembra quasi un paragone con un pigmento, che si dissolve nella terra in cui Maometto stesso si dissolve, come d’altronde tutti noi.
Quello che sto dicendo non riguarda specificamente cristianesimo o Islam, bensì la filosofia di Maometto. Sai, credo che se fosse vivo ascolterebbe blues o jazz, perché la prima persona a cui chiese di fare il richiamo alla preghiera fu Bilāl ibn Rabāḥ, uno schiavo originario dell’Etiopia. [ride]
BN: Bellissimo. L’aspetto interessante è che oggi ci sono cantanti fantastici, come Salif Keïta in Mali, che sostengono di essere discendenti di Bilāl. I griot cantano ancora dal cuore.
IL SUONO HA UNA COMPONENTE SITUAZIONALE E RACCHIUDE UNA VERITÀ ESSENZIALE A CUI NON INTERESSA CHI ASCOLTA E CHI SUONA. VA OLTRE TUTTO CIÒ PERCHÉ IL SUONO CI RICORDA SEMPRE CHE QUALCOSA CI SEPARA DAGLI ALTRI. E INOLTRE IL SUONO CI PORTA UNA SORTA DI PESO… IL SUONO È MOLTO VULNERABILE, MA DECISAMENTE PIÙ FORTE DEL CEMENTO.
HK: Il suono ha una componente situazionale e racchiude una verità essenziale a cui non interessa chi ascolta e chi suona. Il suono va oltre tutto ciò perché ci ricorda sempre che qualcosa ci separa dagli altri. E inoltre il suono ci porta una sorta di peso… il suono è molto vulnerabile, ma decisamente più forte del cemento.
Prima delle prove del progetto Chicago Boys (2010-in corso; consiste in una revival band e un gruppo di studio che analizza l’economia del libero mercato), ho invitato l’intero gruppo a salire su un’enorme bilancia per scoprire quanti chili pesiamo tutti insieme. Ciò che conta è stare insieme e sudare insieme.
BN: Stamattina, quando mi sono svegliato, mi è venuta in mente una canzone della mia infanzia, e l’ho cantata per la prima volta ai miei figli. È stato un momento molto potente.
HK: Come mai proprio stamattina?
BN: Non lo so. Mi è venuta in mente e l’ho cantata. E, mentre lo facevo, mi sono chiesto come sia possibile che esista una sensazione tanto incredibile. Era davvero più forte del cemento. Da bambini cantavamo un’altra canzone che diceva: “Tutte le cose in terra devono vivere per poi morire, la musica soltanto vive per non morire mai”.
HK: Che meraviglia. Me la canti? [ride] Fratello, me la canti? È bellissima!
BN: [canta]
HK: Nella poesia Porgimi il flauto, Gibran Kahlil Gibran dice: “Porgimi il flauto, e tu canta / perché il canto è il segreto dell’eternità, / E il lamento del flauto risuonerà / anche quando l’esistenza sarà svanita”.
Ieri ho visto un musicista che mangiava un cocomero e mi è piaciuto moltissimo guardarlo. Ho vinto la timidezza, gliene ho chiesto un po’ e lui l’ha condiviso con me. Mangiava la parte rossa e si fermava a quella verde; io l’ho morsa a fondo e ho scoperto che aveva un sapore diverso, più aspro e secco. Poi ho chiesto al musicista: “Conosci questo sapore?”, prima di aggiungere: “Vedo musica nuova, a che punto ci si ferma? Forse giochi con accordi maggiori e minori, ma si può andare più a fondo, raggiungere accordi aumentati, diminuiti a metà, diminuiti e diminuiti fino a non suonare più. Non possiamo arrivarci se non mangiamo la parte verde, se non ci spingiamo fino alla buccia. Mi piace andare più a fondo senza aver paura. Tutti invecchieremo e ci godremo anche questo”. Stavo traducendo in termini musicali la mia esperienza con il cibo. Anche questa è musica, mangiare il cocomero senza sapere dove fermarsi perché non si sa qual è la buccia, qual è l’ossatura. Dobbiamo proprio arrivare al cuore. Ho trascorso appena cinque minuti con quel musicista e non stavo cercando di insegnargli nulla, volevo solo spiegargli qualcosa usando i denti, la lingua e la mandibola. Volevo spiegargli come i cibi nuovi influenzano e rimodellano l’architettura interna della nostra bocca, al pari delle lingue nuove, e al pari del suono rispetto all’orecchio.
BN: L’essenza. Bellissimo. Vorrei che ci concentrassimo più nel dettaglio sulle tue tre opere. Partiamo da Pre-Image (Blind as the Mother Tongue): per ovvie ragioni, mi piacerebbe cominciare dal titolo. Cosa intendi di preciso con “cieca come la lingua materna”?
HK: Ogni volta che qualcuno me lo chiede mi sforzo di trovare una nuova spiegazione. Quando realizzo i miei lavori ci salto dentro a quattro zampe, come un animale, e mi trovo poi a parlarne con due gambe soltanto. Stare in un container per Pre-Image (Blind as the Mother Tongue) senza potermi muovere è stata un’esperienza davvero unica. Perché cieca? Non voglio darti una risposta preparata in anticipo, sto cercando sul serio di addentare di più il cocomero, cioè di addentrarmi nella parte profonda. Rispondere, questa volta, è molto difficile. Perché cieca? Se ricordi, nel video, disteso nel buio più totale sotto il carico del camion, parlo nella mia lingua materna e provo a restare immobile per non essere notato dalle guardie. Quel momento ha segnato il limite definitivo per il mio corpo, ma anche per il mio ego. Soprattutto quando la guardia è salita sul carico sopra di me per controllare se qualcuno si fosse nascosto lì. Nel video sono riuscito a descrivere quel frangente solo nella mia lingua materna. In una frase mi ribello contro la vista intesa come il tocco finale dato da Dio all’umanità. Riproduciamo immagini per sospendere il reale. Per evitarlo, bisogna tornare all’istante prima che l’immagine si fissi. Prendere alla sprovvista lo “sguardo.”

Hiwa K, View From Above, 2017, still da video. Video HD monocanale. Courtesy dell’artista; e KOW, Berlino. Collezione Fondazione In Between Art Film.
BN: Il mio amico Raphael Chikukwa, direttore della Galleria nazionale dello Zimbabwe, durante una conferenza, ha rivendicato il diritto di parlare la propria lingua, la propria lingua materna. “In che lingua piangete?” ha chiesto, ricordandomi Pre-Image (Blind as the Mother Tongue). “In che lingua piangete?” è una domanda che per me significa: “Qual è la lingua che dell’interiorità?”, ovvero il messaggio che ho tratto da Pre-Image (Blind as the Mother Tongue). Te lo chiedo perché l’intero film per me è poesia. Non saprei come altro definirlo. Come l’amore, ovviamente, anche la poesia è stata abusata e usata a sproposito, ma credo ancora nella sua verità. Vorrei che mi parlassi del concetto di frammentazione nella lingua, perché il tuo film ci guida in quel mondo e in quell’esperienza. Nel ruolo di storyteller, ci racconti una storia da prospettive molteplici, da frammenti.
HK: Sì, è così.
BN: Oppure si potrebbe parlare di molteplicità, dei vari modi di esperire una situazione. Per esempio quando dici: “Oh, questo sentiero mi sembra familiare perché l’ho già percorso.”
HK: In quell’opera dico di essere già stato in quel luogo… forse secoli prima. Attraverso quegli specchi cerco di ripercorrere i passi che ho mosso secoli fa, ovvero tutte le tracce e le impronte lasciate dalla nostra cultura sul mondo occidentale.
Prima di rispondere alla tua domanda, vorrei aggiungere una cosa in merito alla lingua materna e al titolo: la mia difficoltà nel rispondere potrebbe essere la risposta stessa, perché il titolo spinge lo spettatore a scavare proprio come sto facendo io… anche se a volte non trovo nulla di significativo. È come l’esperienza dei curdi in Turchia, dove non possono parlare la loro lingua: “Come posso amare in una lingua che mi avete costretto a imparare?”. La mia lingua materna è importantissima, e non la definirei un linguaggio. Un linguaggio si impara, e non è questo il caso. Come dicevo, la sentiamo nel grembo materno, lì udiamo tantissimi suoni e versi. Li impariamo ancora prima di aprire gli occhi sul mondo, è un processo che precede la vista. Quindi, di nuovo, perché “cieca”? È il contrario del concetto di “sia fatta la luce”, una luce che proviene dall’alto. No, voglio che “sia fatto il buio”, un buio che proviene dall’interno.
Per tornare invece al discorso della frammentazione: nel mio Paese a volte capita di chiedere a una persona anziana quanti anni ha, e che quella risponda: “Non lo so, tra gli ottanta e i settanta”. Questa era la nostra cultura prima dell’americanizzazione, le persone consideravano le cose come un tutt’uno. Ora invece sono ossessionate da centimetri e millimetri. La frammentazione si verifica quando si è sprovvisti di questi concetti e ci si imbatte in qualcosa di estremamente strutturato; e l’Occidente si è presentato proprio così, come il sistema più strutturato, più forte, dotato del mezzo migliore per ogni cosa. In Pre-Image descrivo quindi una cultura che non ha preso parte al concetto dell’Ich, è stata depredata e ha visto le sue componenti sparse in luoghi diversi. Gli specchi inseguono proprio quelle componenti sparse.
Un altro aspetto che trovo molto stimolante è quello dell’identità. Che cos’è un’identità, quando guardandosi allo specchio si vede un’immagine diversa e non se stessi? Significa osare essere qualcun altro. Vedere un’immagine diversa e osare apparire diversi (un non-selfie). Il film parla anche della mediazione tra la direzione che voglio prendere e il sentire dell’oggetto, che vuole sempre prendere una direzione diversa. Ecco perché mi adatto. E inoltre devo mantenere una grammatica, la grammatica dell’equilibrio. L’oggetto non dovrebbe cadere. È un’entità priva di centro che tenta di fingersi un uomo bianco centrato. Ne prende in prestito la visione dall’alto.
E potresti anche chiedermi perché ho scelto il termine “pre-immagine” anziché “immagine.” Perché indica la condizione di non potersi concedere il lusso di osservare qualcosa. Poter osservare qualcuno è un bel privilegio e, appena lo si fa, l’ego comincia a creare un’immagine – fissa, bloccata – che poi si può conquistare. Io però non posso concedermi quel lusso perché sono impegnato a mantenere l’equilibrio che mi assicura il passo successivo.
E POTRESTI ANCHE CHIEDERMI PERCHÉ HO SCELTO IL TERMINE “PRE-IMMAGINE” ANZICHÉ “IMMAGINE”. PERCHÉ INDICA LA CONDIZIONE DI NON POTERSI CONCEDERE IL LUSSO DI OSSERVARE QUALCOSA. POTER OSSERVARE QUALCUNO È UN BEL PRIVILEGIO E, APPENA LO SI FA, L’EGO COMINCIA A CREARE UN’IMMAGINE – FISSA, BLOCCATA – CHE POI SI PUÒ CONQUISTARE. IO PERÒ NON POSSO CONCEDERMI QUEL LUSSO PERCHÉ SONO IMPEGNATO A MANTENERE L’EQUILIBRIO CHE MI ASSICURA IL PASSO SUCCESSIVO.
BN: Prima, quando hai detto di non essere in grado di dire “ti amo” in curdo, mi hai ricordato quello che ha scritto Ngũgĩ wa Thiong’o in Decolonizzare la mente.2 Racconta che, a scuola, non poteva parlare la sua lingua materna poiché il sistema scolastico coloniale non lo permetteva. Per questo motivo, per evitare l’inglese, cominciò a scrivere nella sua lingua materna, ed è una fase nel processo di decolonizzazione della propria mente.
Mi piacerebbe che approfondissi ulteriormente il concetto di “pre-immagine” e parlassi ancora di questo equilibrio. In uno splendido passaggio del film, dici: “La parte superiore del mio corpo rende schiava la parte inferiore”, e in quel momento, naturalmente, ho pensato all’equilibrio. Cosa succede quando la parte superiore del corpo rende schiava quella inferiore? Se la parte superiore non può essere sorretta da quella inferiore, poiché la rende schiava, non ci può essere alcun equilibrio.

Hiwa K, Pre-Image (Blind as the Mother Tongue), 2017, still da video. Video HD monocanale. Courtesy dell’artista; KOW, Berlino; e Prometeo Gallery Ida Pisani, Milano-Lucca. Collezione Fondazione In Between Art Film.
HK: Era innanzitutto un fardello fisico, perché il personaggio/io stava lavorando moltissimo, in una fabbrica turca in un seminterrato, quattordici ore al giorno per 100 dollari al mese. Durante le pause facevo dei disegni, dei dipinti… lascito dei quattordici anni in cui, in Iraq, ho studiato arte da autodidatta, in particolare i dipinti astratti e in generale l’arte occidentale. A volte, quando si prospetta un incontro significativo, non si può prendere un taxi. Bisogna andarci camminando, in ginocchio o strisciando in modo sacro in virtù dell’importanza di ciò che attende. In Pre-Image, per me era fondamentale portare tutte queste immagini e questi fardelli sul naso. Era il fardello della storia dell’arte visto dalla mia prospettiva, ovvero quella di un artista sconfitto. Per circa quattordici anni della mia vita artistica ho replicato la tradizione dell’arte occidentale. Camminando verso l’Europa li ho portati – e non è una metafora – nel mio zaino. È stato quindi un incontro importante con l’Occidente. Mi sono chiesto perché sia stato privato della mia stessa arte. Perché abbia ripetuto la vostra arte. Che cosa sia stato a farmi perdere le tracce dei miei passi.
Per molti secoli, gli occidentali hanno creduto che i non occidentali non ci vedessero bene, ecco perché usavano colori tanto intensi. Credevano che i non occidentali non sentissero bene, che avessero delle disabilità fisiche, ed ecco perché i loro colori sono così lucenti e assordanti. È questo che intendo quando dico che la parte superiore rende schiava quella inferiore. Se guardi il video View from Above, accade la stessa cosa. Il giudice osserva dall’alto ed è incaricato di decidere il destino della persona che si trova nella parte inferiore, in basso, basandosi sui dati che ha a disposizione [una mappa] e che non corrispondono alla realtà… ma ci arriveremo dopo. Mi viene in mente quel filosofo marocchino che disse che le orecchie sono sempre collegate al cuore, e gli occhi al cervello. È una frase che ritengo vera. Non so se ti ho mai detto la storia sull’eredità che mi ha raccontato mia madre.
BN: Raccontamela di nuovo, per favore.
HK: Il fratello maggiore vuole ingannare il minore perché il padre è morto e vuole tenere tutta l’eredità per sé. Dice: “Senti, fratellino, dal pavimento al tetto tutto appartiene a me, e dal tetto al cielo tutto appartiene a te”. E così gli dà tutto, l’intero universo! Può apparire romantico, ma è un aspetto che si riflette anche nelle mie opere.
BN: Per me View from Above è fra le tue opere più importanti. Il suo carattere politico, la sua contestazione delle mappe, il fatto che la cartografia sia diventata un incredibile strumento coloniale, e sia ancora uno strumento violento… Ho guardato il video con i miei studenti e abbiamo notato che il giudice giocava a fare Dio. Ma vorrei che mi parlassi anche del concetto di “zona sicura,” quel luogo immaginario che esiste solo nella mente dei burocrati europei.
HK: È legato al lusso del guardare, che alcuni burocrati si possono concedere, soprattutto nel contesto dell’immigrazione. Non hanno mai un contatto diretto con la realtà, si limitano a posizionarla sulla mappa, a decidere quali luoghi del mondo sono sicuri e quali no. Purtroppo, in quelle che definiscono “zone sicure,” ci sono dei rischi. L’Occidente vede tutto in bianco e nero. Traccia una linea “di sicurezza” che va da nord a sud e può rimandare indietro chi vive in un villaggio appena oltre questa linea. Persino chi vive a 200 metri dall’esercito iracheno, in un posto in cui può essere catturato o aggredito nel giro di pochi secondi… ma la mappa lo ignora. Al pari del sistema, non lo vede. È cieca. Non ci fa caso. Ecco perché dico che il giudice è un narcisista e che bisogna avanzare passando dalle retrovie, mentre tutti dormono.
Il personaggio del video finge di provenire da un’altra città, città che le Nazioni Unite ritengono “poco sicura.” Poi, adottando la strategia del giudice, impara a collocarsi in quella città studiando la mappa e parlando con i suoi abitanti. E, quando il personaggio viene interrogato dal giudice e risponde usando la sua stessa prospettiva, il giudice esclama: “Finalmente ho trovato qualcuno di sincero. Qualcuno che vede le cose dalla mia prospettiva.” Quindi, alla fine, l’unico che ottiene asilo è il bugiardo. Tutte le persone che provengono da zone poco sicure non sanno descrivere la città d’origine dalla prospettiva del giudice e non possono dimostrare di provenire da lì.
BN: Credo che il film parli soprattutto di quelle zone pericolose che vengono definite sicure benché non lo siano affatto. Chi chiede asilo deve convincere il burocrate europeo che la “zona sicura” della sua mente, la “zona sicura” immaginaria, è in realtà pericolosa.
HK: Sì, esatto, perché si tratta di zone davvero pericolose. È una semplice finzione. Le persone come noi non possono accedervi. Ed è impossibile stabilire il grado di sicurezza di un luogo osservando una mappa. Chi chiede asilo in Europa viene rimandato in Iraq, e ucciso. Il personaggio del film ha trascorso cinque anni in un centro di espulsione, con il terrore di essere rimandato in una cosiddetta “zona sicura.” Ma dov’è questa sicurezza? La prospettiva della persona che osserva dall’alto non ha nulla di che spartire con la realtà che si svolge più in basso. Il suo potere è tutto nei suoi occhi.
BN: Stavo pensando, Hiwa, che c’è un conflitto, un conflitto tra la mono-visione e la pluri-visione. Il giudice è in grado di vedere solo in mono-visione. E questo mi riporta a Pre-Image, al momento in cui osservi il mondo attraverso i riflessi di tutti quegli specchi. Quella è una pluri-visione, che il giudice non è in grado di attuare.
Ci sono numerosi “mono-” nelle culture occidentali: monogamia, monoteismo, monopolio. Il problema è che, con il colonialismo, ci sono state imposte questa mono-visione e altre monocolture. Mi sembra che, attraverso la pratica artistica, tu metta in discussione proprio questi “mono.” Vorrei parlare della forma di narrazione che hai scelto…
HK: Sì, e ora lotta contro una monocultura che è stata esportata nel nostro Paese, che invece ha praticato la permacultura per migliaia di anni.
Tornando al pluri-io, tra le strategie di sopravvivenza adottate dai richiedenti asilo c’è l’elasticità della loro storia. Bisogna tradire il proprio album fotografico, la propria biografia. In questo modo si può creare uno spazio, una terza dimensione che elude la burocrazia occidentale lineare. Inoltre, quando si varcano i confini illegalmente, bisogna trovare nuove strategie per superare le trappole tese dai burocrati.

Hiwa K, View From Above, 2017, still da video. Video HD monocanale. Courtesy dell’artista; e KOW, Berlino. Collezione Fondazione In Between Art Film.
BN: All’inizio abbiamo parlato di trasformazione, transizione, trascendenza. Ho sentito parlare di persone venute in Europa in cerca di asilo che sono state costrette a diventare persone diverse. Devono diventare la storia che raccontano, per far capire al burocrate europeo che non sono al sicuro. E questa è una trasformazione. La domanda è: chi era la persona che è stata abbandonata? Qual è il rapporto fra quella nuova persona e quella vecchia, in frangenti di difficoltà e precarietà estreme?
HK: Quando si creano una nuova persona, un nuovo nome, una nuova età, persino nuove impronte digitali (non chiedermi come), e si vive nei panni di quella persona per quindici anni, si diventa quella persona. Nel momento in cui si rivendica e si riconquista il nome “vero,” si avverte un baratro enorme nella propria vita. Si comincia a sentire la mancanza di quell’“io.” E questo porta alla domanda: “Se posso cambiarla con tanta facilità, cosa c’è di vero nella mia storia?”. Si scopre che non è mai esistita alcuna storia. Bisogna viverla. [ride]
BN: Sì. E, persino nei momenti più duri, bisogna sempre avere una battuta pronta.
HK: Adoro le battute perché sono l’unica cosa davvero reale. Una volta, uno dei miei maestri spirituali ha detto: “La commedia è la forma più alta di letteratura perché ti fa ridere della stupidità con cui la tua specie crea drammi e tragedie”.
BN: Vorrei parlare di spiritualità perché ti conosco da tanti anni e so che sei una persona profondamente spirituale, anche se non ti rivolgi a nessuna divinità in particolare. Ti vedo così. Penso alle campane con cui hai lavorato: mi fanno venire la pelle d’oca, mi attirano. Vorrei usare il suono delle campane per introdurre l’idea di spiritualità che si cela dietro a The Bell Project.
HK: Non mi considero una persona spirituale. Ho un background marxista ateo, ma di recente sono scivolato in un non ateismo causato dall’impossibilità di generare un cambiamento o dalla consapevolezza che l’arte, in generale, non è capace di compiere trasformazioni. Lascio che sia la terra a insegnarmi qualcosa. Dobbiamo capire che, come specie (al pari di altre), siamo sull’orlo dell’estinzione e che il tempo è scaduto. Quella che ci è stata venduta come realtà dev’essere privata di qualsiasi illusione. E l’arte, in questo momento disastroso, dovrebbe operare una trasformazione.
Per me il suono della campana apre uno spazio e permette di prendersi una pausa dall’essere se stessi. Il suono per me è fondamentale. Quando sentiamo determinati suoni, per un po’ dimentichiamo il dolore profondo che si annida dentro di noi e nel nostro ego. Soprattutto il suono prodotto da una campana costata – inutilmente – migliaia di vite.
Il suono invita tutti noi ad ascoltare ed essere presenti. Il suono è legato alla vibrazione. È per questo che ho cercato a lungo la percentuale esatta, 79 percento rame e 21 percento stagno, nella loro composizione più pura, al 99 percento. Volevo ottenere il suono giusto. Poi c’è la questione del suono verticale in contrapposizione a quello orizzontale. E in qualche modo, grazie al processo di fusione, si raggiunge l’orizzontalità. Mi interessa anche l’urgenza delle tonalità. Quando suono, provo una necessità. È come respirare. Dobbiamo continuare a respirare, a respirare insieme.
BN: Nell’opera si svolge inoltre un processo di riconnessione: la campana, per esempio, collega le storie del Medio Oriente a quelle dell’Europa. Ho l’impressione che si svolga un processo di guarigione, o riconciliazione.
HK: Dobbiamo guarire, e le cose da guarire sono tantissime. Ma non possiamo farlo senza la conoscenza. Nel mio Paese tra poco ci saranno temperature di 60, 65 gradi, che lo renderanno un luogo morto. Come possiamo correggere la situazione? Possiamo sopportare il dolore, il caldo, svariate pratiche e condizioni dissolute, ma quali sono le soluzioni? Dobbiamo fare innanzitutto qualcosa di significativo. Come dice Rumi, se ti siedi in una buca e chiedi cosa puoi fare, il cielo ti apparirà molto ristretto. Se invece esci dalla buca, vedrai quant’è grande il cielo.
BN: Penso che il lavoro che stai facendo abbia capacità di azione. È dotato di una sua direzione e di una sua missione. L’artista può arrivare fino a un certo punto, poi tocca all’opera.
HK: L’artista è la levatrice. Si vedono spesso opere che parlano di post-colonialismo, ma l’approccio ai materiali, alla situazione e alle persone coinvolte è colonialista. Dobbiamo agire con attenzione e lasciare che i materiali parlino da sé. Dobbiamo permettere alle situazioni, e alle altre persone, di parlare da sé. Come dicevo, gli artisti sono le levatrici, si limitano ad agevolare la nascita delle idee dal grembo del mondo gravido.
BN: Qual è il ruolo della traduzione nel tuo lavoro?
HK: Il mio lavoro prevede numerosi processi di traduzione. Per esempio, in Cooking with Mama (Cucinare con la mamma, 2015-in corso), il cibo organico viene tradotto e traslato da uno spazio fisico a quello digitale, dove diventa un corpo organico del tutto diverso. La traduzione attraverso la trasformazione. Anche in The Bell Project o in View from Above, quando K diventa M per quindici anni e poi diventa qualcuno che va al di là di entrambi. Pensiamo a quando l’Islam tradusse la filosofia greca e la restituì all’Europa: è lo stesso processo.
BN: Ti ringrazio moltissimo.
HK: Grazie a te.
—Traduzione dall’inglese di Aurelia Di Meo
Hiwa K è un artista nato nella regione del Kurdistan iracheno. Dopo essersi trasferito in Europa nel 2002, si è successivamente stabilito in Germania. Attingendo dalla sua autobiografia, le sue opere sfuggono a un’estetica normativa e fanno vibrare diversamente forme vernacolari, storie orali, modalità di incontro e situazioni politiche.
Bonaventure Soh Bejeng Ndikung è un curatore indipendente, autore e biotecnologo. È fondatore e direttore artistico di SAVVY Contemporary a Berlino, e direttore artistico di sonsbeek20➜24, una mostra quadriennale di arte contemporanea ad Arnhem. In precedenza, Ndikung è stato direttore artistico della 12th Bamako Encounters – African Biennale of Photography, co-curatore del Padiglione finlandese alla Biennale Arte 2019 di Venezia insieme a Miracle Workers Collective (MWC), guest curator della Dak’Art – Biennale de l’Art Africain Contemporain (2018) e curator-at-large a documenta 14, Atene e Kassel. Attualmente è professore del master in Spatial Strategies presso la Weißensee Academy of Art di Berlino. È stato guest professor di studi curatoriali e sound art alla Städelschule di Francoforte. Ha anche ricevuto la prima borsa di studio per la International Curators Residency dell’OCAD University.
1 Si veda Ngũgĩ wa Thiong’o, Decolonizzare la mente. La politica della lingua nella letteratura africana, Jaca Book, Milano 2015.
2 Si veda Paulo Freire, La pedagogia degli oppressi, EGA-Edizioni Gruppo Abele, Torino 2018.
Hiwa K è un artista nato nella regione del Kurdistan iracheno. Dopo essersi trasferito in Europa nel 2002, si è successivamente stabilito in Germania. Attingendo dalla sua autobiografia, le sue opere sfuggono a un’estetica normativa e fanno vibrare diversamente forme vernacolari, storie orali, modalità di incontro e situazioni politiche.
Bonaventure Soh Bejeng Ndikung è un curatore indipendente, autore e biotecnologo. È fondatore e direttore artistico di SAVVY Contemporary a Berlino, e direttore artistico di sonsbeek20➜24, una mostra quadriennale di arte contemporanea ad Arnhem. In precedenza, Ndikung è stato direttore artistico della 12th Bamako Encounters – African Biennale of Photography, co-curatore del Padiglione finlandese alla Biennale Arte 2019 di Venezia insieme a Miracle Workers Collective (MWC), guest curator della Dak’Art – Biennale de l’Art Africain Contemporain (2018) e curator-at-large a documenta 14, Atene e Kassel. Attualmente è professore del master in Spatial Strategies presso la Weißensee Academy of Art di Berlino. È stato guest professor di studi curatoriali e sound art alla Städelschule di Francoforte. Ha anche ricevuto la prima borsa di studio per la International Curators Residency dell’OCAD University.
1 Si veda Ngũgĩ wa Thiong’o, Decolonizzare la mente. La politica della lingua nella letteratura africana, Jaca Book, Milano 2015.
2 Si veda Paulo Freire, La pedagogia degli oppressi, EGA-Edizioni Gruppo Abele, Torino 2018.