Erika Balsom ripercorre gli albori dell’interesse nei confronti del cinema e delle sue modalità espositive da parte dell’arte contemporanea attraverso la storica mostra Passages de l’image, tenutasi al Centre Pompidou di Parigi nel 1990.
Veduta della mostra “Passages de l’image” tenutasi al Centre Pompidou, Galeries contemporaines (19 settembre – 18 novembre 1990). Inv.: MUS199006;EX341. Fotografo: Konstantinos Ignatiadis. Parigi, Musee National d’Art Moderne – Centre Pompidou. © 2022. RMN-Grand Palais /Dist. Foto SCALA, Firenze
Negli anni Novanta, il cinema – la sua storia, il suo linguaggio visivo e la sua modalità di fruizione – era diventato, come non mai, una preoccupazione artistica. Complice l’ampia e recente disponibilità di sistemi per la video proiezione e tra i timori che il cinema stesse andando incontro di nuovo a un’altra morte, l’immagine in movimento è stata oggetto di un sostegno istituzionale che in ambito artistico era senza precedenti. Gli artisti rifacevano e riciclavano i prodotti della storia cinematografica, mentre la pellicola fotochimica veniva considerata un mezzo obsoleto, legato alla spettralità e al passato. Le installazioni immersive spettacolari su larga scala proliferavano, le pratiche documentaristiche aumentavano e le principali istituzioni organizzavano mostre a tema sul cinema. Si era creato quindi un nuovo rapporto tra arte e cinema, mentre l’immagine in movimento si trasformava da linguaggio artistico marginale a onnipresente nelle gallerie e nei musei.
Trent’anni dopo, è lecito affermare che questo periodo sia ormai definitivamente concluso. Le proiezioni di grandi dimensioni e i tropi cinematografici rimangono una presenza importante nell’arte contemporanea, ma è terminato il periodo in cui lo status del cinema veniva costantemente tematizzato nelle pratiche curatoriali e artistiche. La ‘storia d’amore’ tra arte e cinema ha seguito una traiettoria tipica del romanzo: i primi giorni d’infatuazione sono passionali e confusi, segnati dall’ossessione e dalle interminabili riflessioni; poi, dopo un po’, le cose si stabilizzano in un qualcosa di più routinario, più prevedibile.
Dalla posizione di un presente relativamente stabile, può essere utile ricordare il tumulto dell’inizio, per trovare le radici dell’attuale congiuntura e ricordare i percorsi non intrapresi. Partendo da tale presupposto, questo testo torna all’inizio, o per lo meno a un inizio, della storia d’amore tra arte e cinema, ossia a una mostra collocata all’apertura del momento cinefilo dell’arte contemporanea: Passages de l’image [I passaggi dell’immagine], tenutasi al Centre Pompidou nel 1990. Curata dal teorico cinematografico Raymond Bellour e dalle curatrici del Pompidou, Catherine David e Christine van Assche, Passages de l’image ha segnato la prima volta in cui un’istituzione dedicava una mostra interamente alle immagini riproducibili meccanicamente ed elettronicamente. Secondo i curatori, è stata una risposta al “desiderio di capire cosa stesse iniziando a succedere nelle immagini e fra le immagini. Era divenuto ormai chiaro che non si poteva più semplicemente parlare di cinema, fotografia e pittura, poiché era stato raggiunto un punto di non ritorno nella crisi della rappresentazione, in cui la natura stessa delle immagini era stata messa in discussione.”1 Occupando gli spazi del cinema e delle sale espositive, e impiegando le nuove tecnologie, Passages ha delineato le principali questioni che avrebbero impensierito artisti, curatori e studiosi nei decenni a venire: la maggiore presenza di forme intermediali, la crisi della referenzialità ottenuta attraverso un obiettivo e, forse più specificatamente, la relazione mutevole tra l’immagine in movimento e le sue architetture di fruizione nell’era informatica.
OCCUPANDO GLI SPAZI DEL CINEMA E DELLE SALE ESPOSITIVE, E IMPIEGANDO LE NUOVE TECNOLOGIE, PASSAGES HA DELINEATO LE PRINCIPALI QUESTIONI CHE AVREBBERO IMPENSIERITO ARTISTI, CURATORI E STUDIOSI NEI DECENNI A VENIRE: LA MAGGIORE PRESENZA DI FORME INTERMEDIALI, LA CRISI DELLA REFERENZIALITÀ OTTENUTA ATTRAVERSO UN OBIETTIVO E, FORSE PIÙ SPECIFICATAMENTE, LA RELAZIONE MUTEVOLE TRA L’IMMAGINE IN MOVIMENTO E LE SUE ARCHITETTURE DI FRUIZIONE NELL’ERA INFORMATICA.
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Inizialmente prevista per il 1989, ma posticipata a causa di problemi finanziari, Passages de l’image ha aperto nell’autunno del 1990. La mostra ha ampiamente attinto alla ricerca di Bellour sul concetto di entre-image, o ‘fra le immagini,’ che denomina la contaminazione intermediale che si verifica quando due regimi di immagini si incontrano e si ibridano, che si tratti di fotografia e film, o di film e video.2 Passages ha presentato una panoramica di come l’esplorazione dei ‘passaggi’ tra media diversi fosse diventata una parte centrale del lavoro di sedici artisti contemporanei tra cui Geneviève Cadieux, Gary Hill, Suzanne Lafont, Thierry Kuntzel, Chris Marker e Jeff Wall. La maggior parte delle opere presenti sono state prodotte, e molte commissionate appositamente, tra il 1987 e il 1990. Un certo numero riflette sul rapporto tra l’immagine in movimento e il suo contesto espositivo: per esempio, Cinema (1971) di Dan Graham è il modello di un cinema non costruito (l’opera più antica tra quelle in mostra), mentre Passage (1987) di Bill Viola è una video proiezione della festa di compleanno di un bambino, mostrata al rallentatore e installata alla fine di un corridoio lungo e stretto. La pittura è stata esclusa per questione di principio, dato il modo in cui “domina la gerarchia degli oggetti culturali.”3 Fotografia e video installazione di grande dimensione hanno rivestito un ruolo centrale, ma ci sono stati anche esperimenti con i nuovi media, come il lavoro olografico Still Life in 8 Calls (1985) di Michael Snow, e The Erl King (1986) di Grahame Weinbren e Roberta Friedman, una narrazione video interattiva che utilizza un touch screen. I curatori hanno individuato due temi principali, ossia due forme di ‘passaggio,’ come centrali per la mostra: il passaggio tra “immobilità e movimento,” e il passaggio tra “rappresentazione analogica e ciò che la sospende, la distrugge o la corrompe.”4 Entrambi sono in gioco nel medium filmico ed entrambi sono stati drasticamente trasformati dalla comparsa dei video prima, e delle immagini generate a computer poi, che introducono nuove forme di generazione e manipolazione visiva. La mostra ha cercato di mettere in scena le molteplici manifestazioni di questi passaggi, operando una triangolazione fra museo, cinema e digitale come nessun altra in precedenza.
Veduta della mostra “Passages de l’image” tenutasi al Centre Pompidou, Galeries contemporaines (19 settembre – 18 novembre 1990). Inv.: MUS199006;EX341. Fotografo: Konstantinos Ignatiadis. Parigi, Musee National d’Art Moderne – Centre Pompidou. © 2022. RMN-Grand Palais /Dist. Foto SCALA, Firenze
Oltre a questi contributi, la mostra comprendeva anche una videoteca con una selezione di registrazioni realizzate da cento artisti tra il 1965 e il 1989 e un programma di immagini di test scientifici generati al computer, quest’ultimo mostrato in una sorta di cabina all’interno delle sale. I curatori consideravano le animazioni al computer – assemblate da Jean-Louis Boissier, che nel 1985 aveva partecipato all’influente mostra Les Immatériaux di Jean-Louis di François con una video installazione – non come opere d’arte, ma piuttosto come documentazione delle nuove possibilità date da immagini sintetiche prive di referenzialità.5 Nel frattempo, la Salle Garance (il cinema del Pompidou) ospitava un vasto programma di circa 146 film, alcuni risalenti al 1914, come a suggerire che i ‘passaggi’ in esame non erano nulla di nuovo, ma piuttosto questioni che avevano segnato la storia del cinema nel corso del XX secolo. Intorno alla doppia tematica della mostra, era stata selezionata un’ampia gamma di film che spaziavano dal cinema più conosciuto, al cinema d’arte e ai film d’artista: dall’ibrido di animazione/live-action di Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988) all’esplorazione della fissità fotografica in La Macchina ammazzacattivi di Roberto Rossellini (1952), dai tableaux in India Song (1975) di Marguerite Duras alla riflessività strutturale in Wavelength (1967) di Michael Snow. All’interno dello spazio espositivo sono stati proiettati alcuni estratti del programma cinematografico come parte di Vortex (1990), una commissione scultorea di Dennis Adams. Vortex presentava una struttura composta da due schermi che si intersecavano ad angolo acuto, ciascuno dei quali sostenuto da un light box contenente due copie dello stesso fermo immagine di un manifestante addormentato in piazza Tienanmen. In un’intervista contemporanea, Catherine David aveva sottolineato la portata interdisciplinare della mostra, affermando che sperava che potesse colmare il divario tra i discorsi sul cinema e quelli sull’arte.6
Tramite l’impiego considerevole del cinema e l’inclusione della video proiezione, Passages segna un cambiamento decisivo dai paradigmi consolidati inerenti le mostre di video installazioni degli anni Ottanta. Mostre di ricognizione come The Luminous Image [L’immagine luminosa] allo Stedelijk Museum di Amsterdam nel 1984 e Video Skulptur [Video scultura] alla Kölnischer Kunstverein di Colonia nel 1989 erano focalizzate sui video, senza però esplorarne le possibilità di proiezione, concentrandosi invece su quelle scultoree dell’esposizione su monitor. Due anni prima di documenta 9, il cui utilizzo della video proiezione ha fatto la storia, Passages ha evidenziato le possibilità crescenti di questa modalità espositiva e ha preannunciato il profondo impatto che il suo progressivo utilizzo avrebbe avuto su artisti e istituzioni in egual misura. Passages si differenzia anche notevolmente da due importanti mostre contemporanee negli Stati Uniti che interrogavano il venir meno della distinzione tra cultura alta e bassa e il ruolo dello spettacolo mediatico: Image World [Mondo dell’immagine] al Whitney Museum of American Art di New York, e A Forest of Signs [Una foresta di segni] al LACMA – Museum of Contemporary Art di Los Angeles, tenutesi entrambe nel 1989. Image World era accompagnata da un programma cinematografico ma, forse sorprendentemente dato l’argomento di queste mostre, nessuna delle due aveva integrato granché le immagini in movimento nello spazio espositivo. Mettere in discussione i molteplici modi con cui lo si sarebbe potuto fare era proprio la scommessa principale di Passages – una scommessa portata avanti di pari passo con un ritiro dalla spettacolarizzazione e un rifiuto della sensibilità postmoderna che aveva ispirato le mostre statunitensi.7 È prevalsa invece una forma di modernismo residuale, in quanto i curatori avevano selezionato opere che interrogavano in modo riflessivo i loro supporti materiali e affermavano un’opposizione ai vocabolari visivi della pubblicità, anche quando prendevano atto della nuova era digitale che si profilava all’orizzonte.
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Scrivendo del Centre Pompidou all’epoca della sua costruzione nel 1975, Annette Michelson capì che questa nuova istituzione non era fatta della stessa stoffa delle precedenti: “Di proporzioni immense, [essa] è anche immensa nella sua aspirazione; poiché cerca di fondere la conservazione con la creazione, l’arte con l’industria nonché una certa panteonizzazione con l’evento fugace, transitorio e immediatamente consumato.”8 Nel rappresentare l’intersezione tra arte e cinema alla fine del XX secolo, Passages si pone come una ricerca particolarmente acuta sull’imperativo conflittuale descritto da Michelson. Tale imperativo non appartiene solo al Pompidou, ma è diventato, negli anni successivi alla pubblicazione del suo articolo, caratteristico del museo d’arte contemporanea più in generale. La mostra proponeva un duplice approccio all’immagine in movimento, artistico e istituzionalizzato, impegnandosi in una musealizzazione della storia del cinema e affermando la posizione centrale dell’immagine in movimento nel panorama delle pratiche artistiche contemporanee. Ma la questione della disgregazione e dispersione – in breve, il ‘fugace’ – che vede l’immagine in movimento allineata a una circolazione, tecnologizzazione e accelerazione eterogenea rimane comunque legata a questa narrazione di ‘panteonizzazione.’ In altre parole, all’interno di Passages de l’image vi è un movimento contraddittorio, per cui l’immagine in movimento cerca di entrare nel museo, mentre allo stesso tempo ne sconvolge i valori e le categorie che storicamente avevano dato forma alle sue pratiche.
Gli aspetti ‘fugaci’ di Passages sono presenti certamente in Zapping Zone (Proposals for an imaginary television) (1990) di Chris Marker, una nuova commissione che Jean-Michel Frodon, nella sua recensione della mostra sul quotidiano «Le Monde,» ha ritenuto essere “l’emblema di ciò che l’intera mostra voleva essere.”9 Catherine David, nel frattempo, l’ha definita una ‘versione cancerosa’ dei dispositivi (dispositifs) ibridi utilizzati dagli altri artisti in tutta Passages – una descrizione che evoca una moltiplicazione ed esagerazione delle strategie presenti altrove nelle sale espositive.10 Anche se Zapping Zone, un assemblaggio di una ventina di televisioni e monitor, non era la prima installazione multicanale di Marker – nel 1978 infatti aveva contribuito con l’opera video a doppio canale Quand le siècle a pris forme (Guerre et révolution) alla mostra Parigi-Berlino: 1900-1930 al Pompidou – rappresenta un momento significativo nella sua pratica, poiché segna il passaggio definitivo al di là dello schermo singolo da parte di chi era stato in precedenza strettamente associato a esso. I monitor sono disposti insieme per formare un’installazione con una forte presenza spaziale che dipende dal movimento ambulatorio dello spettatore perché le connessioni e gli accostamenti tra i vari schermi siano attivate. Il titolo provvisorio dell’installazione era Logiciel/Catacombes [Software/Catacombe] – una concatenazione che avvicina la novità tecnologica alle nozioni di eternità e conservazione. In una proposta inedita scritta per i curatori di Passages, Marker spiega di aver cercato di tracciare il passaggio dall’era industriale all’era dell’informazione, una transizione che va dal cinema al computer.11
Veduta della mostra “Passages de l’image” tenutasi al Centre Pompidou, Galeries contemporaines (19 settembre – 18 novembre 1990). Inv.: MUS199006;EX341. Fotografo: Konstantinos Ignatiadis. Parigi, Musee National d’Art Moderne – Centre Pompidou. © 2022. RMN-Grand Palais /Dist. Foto SCALA, Firenze
Marker era una delle due figure, insieme a Michael Snow, i cui lavori erano presenti sia nelle sale sia nel programma cinematografico. Nell’introduzione a quest’ultimo, i curatori sottolineano che la presenza di Marker in entrambi i contesti dovrebbe indicare che ci si aspetti che lo spettatore del cinema sia al contempo un visitatore della mostra, suggerendo la misura in cui Passages andava affermando il mutato rapporto tra gli spazi del cinema e della galleria.12 Per affermare ulteriormente il legame tra questi spazi, i curatori avevano deciso di invitare i registi a produrre installazioni, intraprendendo una strada che all’epoca era nuova ma che sarebbe stata ripresa ripetutamente nelle principali mostre internazionali nel corso degli anni Novanta. Nelle prime discussioni, si era ipotizzato che Peter Greenaway avrebbe potuto produrre scenografie per l’intera mostra, o forse esporre video-saggi che esplorassero i ‘giochi’ inventati per il suo film del 1988 Giochi nell’acqua, ma niente di tutto ciò si concretizzò in realtà.13 Anche Chantal Akerman appariva nella lista iniziale delle opere:14 sebbene in seguito – a partire da una mostra al Jeu de Paume curata da Catherine David nel 1995 – avrebbe esteso il suo lavoro allo spazio espositivo, fino a quel momento la sua pratica era rimasta confinata al cinema. Il progetto era quello di presentare il suo film del 1972 Hotel Monterey nella galleria, ma anche questo non si concretizzò. Fu in questo contesto che Bellour estese un invito a Marker per produrre il lavoro che sarebbe diventato Zapping Zone.
Il titolo dell’installazione suggerisce che i suoi numerosi monitor potrebbero essere considerati come una spazializzazione di vari canali televisivi tra cui fare ‘zapping.’ Il critico Serge Daney aveva usato il termine ‘zapping’ in una rubrica sulla televisione che nel 1987 scrisse per tre mesi su «Libération,» descrivendo l’azione sia come sogno che come incubo: da un lato, era un modo per affiancare materiali eterogenei al fine di creare costellazioni che permettessero ai loro elementi di riverberare in maniera inedita; dall’altro, era una forma di distrazione meccanica.15 L’installazione di Marker incarna questa stessa ambivalenza. Zapping Zone riunisce un vasto assortimento di materiali, che provengono principalmente dal suo archivio personale e che includono media diversi. Si appropria delle riprese di Andrei Tarkovsky e della televisione giapponese, affiancandole ai suoi film, a una serie di diapositive e a immagini create in Hyperstudio utilizzando il suo computer Apple IIGS.16 Il riutilizzo da parte di Marker di materiale esistente, inclusi estratti del suo Sans Soleil (1983) e Le Fond de l’air est rouge (1977), suggerisce una concezione dell’immagine come mobile, slegata da qualsiasi supporto o architettura espositiva. Nella proposta per l’installazione, Marker immagina una postazione attraverso la quale le immagini degli spettatori verrebbero prese in diretta e fuse con le immagini di un gufo, un qualcosa che ha chiamato il Owlomaton.17 Immaginò che gli spettatori avrebbero potuto stampare questa immagine e portarsela a casa come souvenir – forse un commento intelligente e ironico all’idea che il museo postmoderno fosse paragonabile a un parco divertimenti.
L’Owlomaton non venne mai realizzato, presumibilmente a causa dei costi e dei requisiti tecnici. Zapping Zone è riuscita comunque a raggiungere gli obiettivi concettuali originari di Marker. L’installazione conferisce un enorme potenziale generativo alle nuove forme intermediali, vedendole come un mezzo per rinvigorire la pratica dell’immagine in movimento. Attraverso queste nuove tecnologie di produzione ed esposizione delle immagini, Marker amplia molti dei suoi interessi di lunga data: la mobilità di immagini e persone, la capacità di lavorare in modo indipendente, e l’esplorazione di tecniche di montaggio innovative. Tuttavia c’è anche un senso di perdita: una perdita di tempo, attenzione e scala. Come Passages nel suo complesso, Zapping Zone evidenzia le migrazioni e le mutazioni del cinema in una nuova ecologia mediale, ma lo fa in un modo inscindibile dalla questione della memorializzazione. In una recensione della mostra pubblicata su «Cahiers du cinéma,» Antoine de Baecque ha scritto che Passages era segnata dalla nostalgia e proponeva che la musealizzazione del cinema potesse implicare il conferire al film quell’aura un tempo compromessa.18 La concezione del cinema come un mezzo antico e bisognoso di protezione sarebbe stata portata avanti alacremente negli anni a venire da parte di artisti, studiosi e curatori, dato che la sua obsolescenza culturale di massa ne facilitò il passaggio nel pantheon delle arti.
Veduta della mostra “Passages de l’image” tenutasi al Centre Pompidou, Galeries contemporaines (19 settembre – 18 novembre 1990). Inv.: MUS199006;EX341. Fotografo: Konstantinos Ignatiadis. Parigi, Musee National d’Art Moderne – Centre Pompidou. © 2022. RMN-Grand Palais /Dist. Foto SCALA, Firenze
Mentre la panteonizzazione è legata a un elevato valore culturale, il lasciarsi alle spalle lo spazio del cinema comporta anche il rinunciare alle condizioni di visione che storicamente sono state importanti per la specificità dell’esperienza cinematografica. In molte delle mostre a tema cinematografico degli anni Novanta e Duemila, l’ingresso del film nel pantheon delle arti è legato non solo a una spostamento discorsivo, ma anche architettonico: viene portato fuori dal cinema e dentro la galleria. Per esempio, nella mostra del 2006 Le Mouvement des images [Il movimento delle immagini], anch’essa al Pompidou e curata da Philippe-Alain Michaud, opere canoniche del cinema d’avanguardia, realizzate su pellicola e destinate a una visione al cinema dall’inizio alla fine, sono state trasferite su video ed esposte lungo un corridoio centrale. Nel catalogo della mostra, Michaud ha suggerito che è ora necessario considerare il cinema “non più dal punto di vista limitato della storia del cinema, ma piuttosto al crocevia fra lo spettacolo dal vivo e le arti visive, da un punto di vista più ampio che abbraccia la storia generale delle rappresentazioni.”19 Nel sostenere il legame tra cinema e arte contemporanea e nel rivendicare il posto del cinema all’interno del museo, si potrebbe vedere in Passages un presagio di tale pratica. Tuttavia, è importante notare come negli spazi espositivi non sia stata presenta né alcuna opera di immagini in movimento la cui fruizione dipendesse da una completa visione, né alcuna opera originariamente realizzata per la presentazione al cinema: pratiche che oggi sono ormai comuni.
Con la loro decisione di dar luogo a una duplice presentazione comprendente la mostra in sala e il programma cinematografico separato, i curatori hanno abbracciato una pratica adottata, in modo piuttosto controverso, da Harald Szeemann per documenta 5 (1972) e successivamente ripetuta innumerevoli volte – pratica che viene talvolta interpretata come un conferimento al cinema di uno status di seconda classe, quasi a suggerire che possieda un ruolo minore, accessorio rispetto alle opere in mostra. I curatori di Passages non intendevano nulla del genere, tuttavia la risposta della stampa ha virato verso il privilegiare lo spazio della mostra; come osservato da Bellour nel 2015, “Tutte le recensioni, tutte le reazioni, sono state indirizzate alla mostra e il programma cinematografico non è stato veramente inteso come parte di essa, il che per noi era invece scontato. È stato fondamentale averlo.”20
IN QUESTO ESAME SUI ‘PASSAGGI’ INTERMEDIALI DELL’IMMAGINE, COLLOCARE IL PROGRAMMA CINEMATOGRAFICO NEL CINEMA NON È STATA UNA RETROCESSIONE, BENSÌ UN MODO DI INSISTERE SULLA SPECIFICITÀ E SULLA DIFFERENZA TRA CINEMA E ARTE, ALLORQUANDO VENIVA MESSO IN SCENA IL LORO CONFRONTO.
In questo esame sui ‘passaggi’ intermediali dell’immagine, collocare il programma cinematografico nel cinema non è stata una retrocessione, bensì un modo di insistere sulla specificità e sulla differenza tra cinema e arte, allorquando veniva messo in scena il loro confronto – una posizione che, in verità, appare piuttosto poco ortodossa rispetto alle numerose mostre a tema cinematografico che sono seguite negli anni Novanta e all’inizio del XXI secolo, che hanno di gran lunga preferito optare per una assimilazione sia a livello discorsivo sia spaziale. Per quanto la mostra sia una prima istanza della trasportabilità del cinema che avrebbe poi caratterizzato le pratiche curatoriali successive, essa accenna ugualmente alla posizione che Bellour avrebbe assunto nel suo libro La Querelle des dispositifs (2012), in cui descrive il periodo della cinefilia dell’arte contemporanea come un periodo di ‘violenza dolce’ e sostiene che il cinema dipenda intrinsecamente dalle specifiche caratteristiche delle sale cinematografiche.21
Veduta della mostra “Passages de l’image” tenutasi al Centre Pompidou, Galeries contemporaines (19 settembre – 18 novembre 1990). Inv.: MUS199006;EX341. Fotografo: Konstantinos Ignatiadis. Parigi, Musee National d’Art Moderne – Centre Pompidou. © 2022. RMN-Grand Palais /Dist. Foto SCALA, Firenze
Trent’anni dopo Passages de l’image, è diventato del tutto ordinario vagare per gallerie piene di proiezioni, incontrando opere create appositamente per quello spazio insieme a opere realizzate per una visione completa e originariamente destinata al cinema, il genere che Passages aveva scelto di confinare allo spazio del cinema. Allo stesso modo, è anche estremamente comune vedere artisti e curatori impegnati nelle dinamiche con cui la cultura digitale sta trasformando lo status dell’immagine e le caratteristiche dell’esperienza estetica. Tuttavia, nessuno di questi due fenomeni era usuale nel 1990. Il tornare a questa mostra simbolo, oggi, significa tornare al momento immediatamente precedente a quello in cui le modalità di esposizione, che ora dominano la pratica curatoriale contemporanea, si sarebbero normalizzate. Si tratta di una mostra caratterizzata sia da una malinconica esitazione circa le implicazioni della maggiore mobilità dell’immagine in movimento sia da una carica elettrica generata dallo smarrimento su come queste stesse circostanze avrebbero potuto funzionare come fonte di creatività. Affronta la sfida delle nuove tecnologie insistendo nel contempo nell’affermare una certa distanza da una cultura visiva basata sulla mercificazione e sulla disattenzione; drammatizza la contaminazione e l’ibridazione, insistendo anche sulla separazione. Dato che la storia degli incontri tra l’arte e il cinema è ormai stata scritta, è imperativo che non sia solo una storia di artisti e opere d’arte, ma anche una storia di mostre, poiché è attraverso un esame dei progetti curatoriali su larga scala, come Passages de l’image, che diventa possibile delineare i contorni dello spazio in continua evoluzione tra arte e film.
— Traduzione dall’inglese di Bianca Stoppani
Erika Balsom è professoressa in studi cinematografici al King’s College di Londra. È autrice di quattro libri, tra cui TEN SKIES (2021) e After Uniqueness: A History of Film and Video Art in Circulation (2017), e co-editore di Artists’ Moving Image in Britain Since 1989 (2019) e Documentary Across Disciplines (2016). Oltre al suo lavoro accademico, scrive regolarmente testi critici per riviste come Artforum, 4Columns e Cinema Scope. È stata co-curatrice della mostra “Peggy Ahwesh: Vision Machines” (2021) a Spike Island, Bristol, e del programma cinematografico “Shoreline Movements” per la Biennale di Taipei 2020. Nel 2018 le è stato assegnato il premio Leverhulme e il premio Katherine Singer Kovacs Essay Award dalla Society for Cinema and Media Studies.
1 Raymond Bellour, Catherine David, e Christine van Assche, “Introduction,” trad. di James Eddy, Passages de l’image, Centre Cultural de la Fundació Caixa de Pensions, Barcellona 1990, p. 12 (TdT).
2 Si veda Raymond Bellour, Fra le immagini. Fotografia, cinema, video, Bruno Mondadori, Milano 2007.
3 Jean-François Chevrier e Catherine David, “The Present State of the Image,” trad. di James Eddy, Passages de l’image, Centre Cultural de la Fundació Caixa de Pensions, Barcellona 1990, p. 28 (TdT).
4 Bellour, David, e van Assche, p. 14.
5 Come hanno affermato Chevrier e David, le immagini sintetiche “sono incluse per l’interesse delle domande teoriche che possono sollevare, piuttosto che per il valore reale delle opere che sono state prodotte fino a ora” (TdT), Chevrier e David, p. 6.
6 Catherine David, citata in Florette Camard, “Passages de l’image,” Galleries (ottobre-novembre 1990); cartella stampa di Passages de l’image, Centre Pompidou Archives, p. 126.
7 Chevrier e David affrontano soprattutto questo nel loro contributo al catalogo della mostra, segnando una distinzione tra il loro approccio e l’imitazione della cultura popolare che scorgono in artisti come Richard Prince e Barbara Kruger, che secondo loro “finiscono per valutare e legittimare ciò che avevano intenzione di criticare,” Chevrier e David, p. 26 (TdT).
8 Annette Michelson, “Beaubourg: The Museum in the Era of Late Capitalism,” «Artforum», aprile 1975, p. 65.
9 Jean-Michel Frodon, Le miroir aux images, «Le Monde», 24 settembre 1990; cartella stampa di Passages de l’image, Centre Pompidou Archives, p. 74.
10 Camard, p. 124.
11 Chris Marker, “Projet: Logiciel/Catacombes,” dattiloscritto senza data, Centre Pompidou Archives.
12 Raymond Bellour, Catherine David, e Christine van Assche, brochure del programma cinematografico di Passages de l’image, senza pagina; Centre Pompidou Archives.
13 Intervista con Raymond Bellour, giugno 2015.
14 “Artistes ‘Passages de l’image,’” dattiloscritto senza data, Centre Pompidou Archives.
15 Queste rubriche sono raccolte in Le Salaire du zappeur, P.O.L., Parigi 1988.
16 Quando Zapping Zone è stata mostrata a Barcellona nell’iterazione catalana di Passages nel 1991, la sua presentazione è stata sponsorizzata da Apple España.
17 Marker, senza pagina.
18 Antoine de Baecque, Iconoclates, iconolâtres, «Cahiers du cinéma», settembre 1990; cartella stampa di Passages de l’image, Centre Pompidou Archives, p. 112.
19 Philippe-Alain Michaud, Le Mouvement des images, Centre Pompidou, Parigi 2006, p. 16.
20 Intervista con Raymond Bellour, giugno 2015.
21 Raymond Bellour, La Querelle des dispositifs, P.O.L., Parigi 2012, p. 10 (TdT).
Erika Balsom è professoressa in studi cinematografici al King’s College di Londra. È autrice di quattro libri, tra cui TEN SKIES (2021) e After Uniqueness: A History of Film and Video Art in Circulation (2017), e co-editore di Artists’ Moving Image in Britain Since 1989 (2019) e Documentary Across Disciplines (2016). Oltre al suo lavoro accademico, scrive regolarmente testi critici per riviste come Artforum, 4Columns e Cinema Scope. È stata co-curatrice della mostra “Peggy Ahwesh: Vision Machines” (2021) a Spike Island, Bristol, e del programma cinematografico “Shoreline Movements” per la Biennale di Taipei 2020. Nel 2018 le è stato assegnato il premio Leverhulme e il premio Katherine Singer Kovacs Essay Award dalla Society for Cinema and Media Studies.
1 Raymond Bellour, Catherine David, e Christine van Assche, “Introduction,” trad. di James Eddy, Passages de l’image, Centre Cultural de la Fundació Caixa de Pensions, Barcellona 1990, p. 12 (TdT).
2 Si veda Raymond Bellour, Fra le immagini. Fotografia, cinema, video, Bruno Mondadori, Milano 2007.
3 Jean-François Chevrier e Catherine David, “The Present State of the Image,” trad. di James Eddy, Passages de l’image, Centre Cultural de la Fundació Caixa de Pensions, Barcellona 1990, p. 28 (TdT).
4 Bellour, David, e van Assche, p. 14.
5 Come hanno affermato Chevrier e David, le immagini sintetiche “sono incluse per l’interesse delle domande teoriche che possono sollevare, piuttosto che per il valore reale delle opere che sono state prodotte fino a ora” (TdT), Chevrier e David, p. 6.
6 Catherine David, citata in Florette Camard, “Passages de l’image,” Galleries (ottobre-novembre 1990); cartella stampa di Passages de l’image, Centre Pompidou Archives, p. 126.
7 Chevrier e David affrontano soprattutto questo nel loro contributo al catalogo della mostra, segnando una distinzione tra il loro approccio e l’imitazione della cultura popolare che scorgono in artisti come Richard Prince e Barbara Kruger, che secondo loro “finiscono per valutare e legittimare ciò che avevano intenzione di criticare,” Chevrier e David, p. 26 (TdT).
8 Annette Michelson, “Beaubourg: The Museum in the Era of Late Capitalism,” «Artforum», aprile 1975, p. 65.
9 Jean-Michel Frodon, Le miroir aux images, «Le Monde», 24 settembre 1990; cartella stampa di Passages de l’image, Centre Pompidou Archives, p. 74.
10 Camard, p. 124.
11 Chris Marker, “Projet: Logiciel/Catacombes,” dattiloscritto senza data, Centre Pompidou Archives.
12 Raymond Bellour, Catherine David, e Christine van Assche, brochure del programma cinematografico di Passages de l’image, senza pagina; Centre Pompidou Archives.
13 Intervista con Raymond Bellour, giugno 2015.
14 “Artistes ‘Passages de l’image,’” dattiloscritto senza data, Centre Pompidou Archives.
15 Queste rubriche sono raccolte in Le Salaire du zappeur, P.O.L., Parigi 1988.
16 Quando Zapping Zone è stata mostrata a Barcellona nell’iterazione catalana di Passages nel 1991, la sua presentazione è stata sponsorizzata da Apple España.
17 Marker, senza pagina.
18 Antoine de Baecque, Iconoclates, iconolâtres, «Cahiers du cinéma», settembre 1990; cartella stampa di Passages de l’image, Centre Pompidou Archives, p. 112.
19 Philippe-Alain Michaud, Le Mouvement des images, Centre Pompidou, Parigi 2006, p. 16.
20 Intervista con Raymond Bellour, giugno 2015.
21 Raymond Bellour, La Querelle des dispositifs, P.O.L., Parigi 2012, p. 10 (TdT).